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L’ASSOLUTO QUI E ORA

Alessandra Maio                                                                    

– Martina Lolli

Per metà scrittrice e per metà pittrice, Alessandra Maio porta avanti una ricerca che ha la forza comunicativa della Poesia Visiva e l’eleganza del Minimalismo. Le opere da lei concepite oscillano sulla soglia della percezione dove le immagini prendono forma e le parole si attardano sul confine del dicibile. In ogni lavoro, disegno e parole – significante e significato – cedono l’uno al fascino dell’altro e divengono materia emozionale. Alessandra recupera la scrittura manuale, che torna a essere un mezzo, ma con il suo bagaglio emotivo e la bellezza dell’imperfezione. In lavori come la serie Orizzonti la tensione verso l’infinito è palpabile: il pieno e il vuoto si specchiano mentre le parole si addensano nella linea di confine dando vita alle sfumature di colore che contraddistinguono le opere. Anche quando la scrittura si dissolve, essa permane come un sottotesto che riempie il “pieno” cromatico, per cui tutto vive di un equilibro dal sentore orientale. Le volute di inchiostro di Irma Blank, la pulizia grafica di Agnes Martin e il colore atmosferico di Ettore Spalletti si fondono nella ricerca dell’assoluto qui e ora di uno stato d’animo che è possibile condividere attraverso parole, che – coscienti della limitatezza – danno vita alle immagini: nulla è spiegato; è evocazione allo stato puro. Qual è il confine tra l’immagine e la parola? Quando la parola trasmigra nel disegno? Cerchiamo di scoprirlo insieme ad Alessandra…

Martina Lolli/ Quando inizi ad apporre i primi segni che si trasfigurano divenendo immagine, quanto della scrittura si trasla in queste? Cʼè qualcosa che porti con te quando smetti di “scrivere” e inizi a “dipingere”?

Alessandra Maio/ Le parole all’inizio per me hanno importanza come significato. Inizio a scrivere la frase che ho scelto in quel momento per quel lavoro, perché è il riassunto di un’emozione, una sensazione che voglio analizzare. Ma mentre creo il rapporto con le parole cambia: pian piano inizio ad assimilarle, tanto che la scrittura diventa automatica, campitura, colore. La creazione diviene, così, atto performativo poiché corrisponde all’evoluzione della sensazione di partenza, alla sua elaborazione. È forse per questo che a volte mi dà quasi fastidio rispondere a domande quali “cosa c’è scritto?”; vorrei che il lavoro fosse osservato per la sensazione che dà, per il risultato finale. Questo vale meno per altri lavori – specialmente quelli degli ultimi anni fatti su carta di quaderno, installazioni – dove le parole, leggibili, sono invece mostrate e diventano fondamentali per la lettura del lavoro.

ML/ Parlaci del momento performativo nella creazione dell’opera.

AM/ Quando inizio a scrivere o a dipingere ho già in mente quale sarà il percorso di esecuzione e il risultato che vorrei ottenere. Il momento del fare per me è un atto performativo: è meditazione, riflessione e spesso anche trasformazione di un concetto. I miei lavori di norma partono da alcune frasi che sintetizzano bene un mio stato d’animo (“continuo a cercare ma non so più cosa”, “non voglio perdermi nei miei pensieri”, “non voglio continuare a sbagliare”); ripetere centinaia di volte queste parole è un processo lento che porta a perdersi in esse e infine a trovare in ogni lavoro concluso un “risultato”, una possibile risposta, una forma.

ML/ Oggi sembra che le nostre facoltà debbano essere subito sfruttabili e non ci è concesso sbagliare. Mentre nelle tue serie Errata Corrige e Preghiera l’errore forma l’opera e la trasforma in un esercizio volto alla perfezione. Anche la serie Campiture è una sorta di training basato sul colore e sulle sue impercettibili sfumature. Puoi parlarci dell’attitudine che si cela dietro ogni esercizio?

AM/ L’errore è una componente importante della mia ricerca. In alcuni lavori l’ho reso protagonista cercando di mostrare il suo lato più bello e umano, quel lato che spesso tendiamo a nascondere. Preghiera è fra questi: è una preghiera impossibile – “non voglio continuare a sbagliare” – che, nel suo intento irraggiungibile, mostra la sua forza. Ho sempre pensato che esercitarsi sia fondamentale per migliorarsi. Per quella che è la mia esperienza, ho notato che quando spero di ottenere qualcosa senza fare niente è perché sono bloccata o sono presuntuosa. Qualche anno fa, nel 2015, ho cominciato una serie di lavori che ho chiamato, non a caso, esercizi di stile. Cominciare questa serie per me è stato il modo per formalizzare il metodo di lavoro che avrei voluto seguire da quel momento in poi con studio, caparbietà, costanza e tanto esercizio. In questi lavori cerco di provare ad accordare colore, scrittura ed espressione e questa è una delle ricerche che al momento sto seguendo con maggiore interesse.

ML/ In alcune serie, come Mimesi, lasci spazio al colore che sommerge le parole fino a costruirvi sopra l’immagine che mantiene tuttavia la carica emotiva del testo che nasconde come fosse un velo di Maya. Come scegli i colori che vanno a interagire con le parole?

AM/ Li scelgo in funzione della sensazione che vorrei suscitasse il lavoro finito. La frase e il colore che compongono un lavoro sono in dialogo tra loro, sfumano l’uno verso l’altro, si confrontano (come accade in Campiture) o si fondono (come nella serie Mimesi). Amo lavorare con il blu e il rosso, li declino in molte gradazioni. Prediligo l’acquerello ma ultimamente ho usato anche gli acrilici e i colori a olio. Il colore è un terreno ancora nuovo per me e mi sta piacendo molto esplorarlo: l’uso della pittura mi permette di scardinare maggiormente i limiti della scrittura, di estenderli.

Dall’alto: CAMPITURE BLU, toujours le meme toujours différente, 2018. Matita e acquerello su carta di cotone, 76×56 cm. ERRATA CORRIGE, 2014. Penna su fogli protocollo, 87×126 cm. Per entrambe courtesy dellʼartista.

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