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UNA REALTÀ MUTANTE

Francesco Pacelli

– Gregorio Raspa

Gregorio Raspa/ Francesco, il tuo lavoro si misura con l’ignoto e il possibile. Esso propone forme e immagini realizzate ipotizzando una realtà alternativa, frutto di un processo di manipolazione che salda fra loro elementi diversi in un unicum dotato, al contempo, di un aspetto irreale e verosimile. Come e quando tutto ciò è nato?

Francesco Pacelli/ Le ricerche condotte negli ultimi anni tra scienza, evoluzionismo e arti visive mi hanno sicuramente offerto numerosi stimoli. Cercando di razionalizzare, il tentativo di immaginare mondi immaginifici ma plausibili credo derivi dal desiderio contrastante, quasi ossimorico, di evadere da una visione preconcetta e univoca della realtà e, al contempo, di mantenere uno spiraglio di connessione con le persone attraverso il dialogo innescato dalle opere.

GR/ La tua ricerca assorbe stimoli diversi, prodotti dalla cultura contemporanea e dal suo potenziale immaginifico e visionario. Nello specifico, il lessico visivo dei tuoi lavori sembra richiamare l’ormai lunga tradizione della letteratura e della cinematografia fantascientifica e, nel campo delle arti visive, quella Post-Human teorizzata da Jeffrey Deitch. A tal proposito, mi parleresti dei riferimenti artistici che generalmente ispirano/guidano la realizzazione di una tua opera?

FP/ Penso ad Akira, a Graham Harman e la Object-Oriented Ontology, a Moebius, ai fratelli Wachowski, a Zero K e altro ancora. Nelle arti visive tuttavia, sebbene sia molto legato alle varie forme di sperimentazione del contemporaneo, spesso mi attraggono ossessivamente opere di autori apparentemente lontani da me. Mi vengono in mente, ad esempio, alcuni lavori di Louise Bourgeois, Sarah Lucas o Georg Baselitz, ma anche Ettore Sordini o Irena Dedicova. Di recente, mi ha molto colpito l’atmosfera creata da una piccola opera di Gino De Dominicis esposta alla GAMeC per la mostra “Black Hole”.

GR/ Nel 2016 hai lavorato come assistente, al fianco di Roberto Cuoghi, durante la lunga e complessa gestazione della mostra “Putiferio”. Mi racconti di quella esperienza? Immagino sia stata una “palestra” importante, anche alla luce degli elementi di affinità che il progetto stesso presentava con i contenuti della tua ricerca artistica…

FP/ Roberto mi ha colpito per la rapidità con cui è in grado di assorbire una determinata tecnica di lavorazione e per l’entusiasmo che genera in lui la trasformazione materica. Tuttavia, l’aspetto che mi ha maggiormente impressionato è legato alla sperimentazione sulla propria persona e il suo agire secondo criteri che potrebbero apparire illogici ai più, testando i propri limiti mentali e corporali per cercare costantemente di superarli, costi quel che costi.

GR/ Materiali organici, materiali plastici, resine, ceramica e porcellana. Questi sono solo alcuni degli elementi generalmente utilizzati per comporre le tue opere. Come avviene la scelta del loro impiego e, soprattutto, quella delle tecniche utilizzate per la loro trasformazione?

FP/ Le idee mi vengono istantaneamente, quasi fossero delle visioni istintive e irrazionali che poi cerco di stratificare e affinare, ipotizzandone dettagli e particolari. È un processo continuo di trial and error, prevalentemente mentale e in parte fisico-sperimentale, che continua fino al momento in cui trovo una combinazione sensata di elementi che mi soddisfano per ottenere un risultato specifico.

GR/ Tra tutti i tuoi lavori, mi ha molto incuriosito l’installazione Joru Series (2019), composta da tre distinti corpi in silicone impegnati in un movimento di contrazione molto simile a quello della respirazione. Me ne parli?

FP/ Secondo un recente paper americano, se vediamo il video del gioco di passarsi un coltello tra le aperture delle dita di una mano umana o di una mano robotica antropomorfa, il nostro cervello genera una condizione di ansia similare. Joru Series è un tentativo di porre delle domande relative alle reazioni empatiche umane di fronte a esseri pseudo-viventi, ma totalmente artificiali, colti nell’atto di respirare in una condizione destabilizzante di costrizione fisica, un atto al contempo di creazione e distruzione.

GR/ Più in generale, nel tuo lavoro entra- no in gioco riflessioni legate ad un unico, ampio, ipertesto che unisce temi scientifici, tecnologici e filosofici. In quest’ottica, per mezzo delle tue opere, metti costantemente in scena alcune tra le dicotomie del nostro tempo. Penso, ad esempio, a quelle reale/virtuale o naturale/artificiale. Personalmente, come ti poni rispetto a questi temi?

FP/ Queste ultime due coppie che hai citato sono spesso vissute come entità antitetiche, ai margini opposti di uno spettro di entità possibili. Io ritengo che queste distinzioni in realtà siano piuttosto labili e con la mia ricerca a volte tento di assottigliare questa differenza.

GR/ In tutti i tuoi lavori, al pari delle forme nuove, appaiono ben visibili – seppur assenti – le forme originarie, quelle che nei processi di ibridazione da te proposti risultano inesorabilmente perse. In fondo, mi piace pensare al tuo lavoro – anche – come ad un omaggio reso a ciò che in principio era e, adesso, non è più. È una suggestione così sbagliata?

FP/ Il tema dell’evoluzione fa sicuramente parte del mio lavoro. Tuttavia, mi piace pensarlo non tanto come un omaggio a ciò che fu, ma piuttosto come a una narrazione, ai limiti dell’impersonale, di un processo di trasformazione che è in atto, inarrestabile, travolgente. Sono convinto che se volessimo veramente conservare la specie, focalizzeremmo le nostre risorse diversamente. Invece a me sembra che l’umanità, per il semplice istinto innato e irrefrenabile di ricercare, scoprire e inventare, stia convogliando molte energie verso obiettivi i cui esiti incerti potrebbero portare in tempi brevi a una trasformazione radicale, anche potenzialmente negativa, della nostra specie e della realtà in cui siamo immersi.

Dall’alto: JORU SERIES, 2019. Silicone, tubi, sistema elettronico di gonfiaggio, 140x88x15 cm (tubi esclusi). Esposto in occasione di “Abisso elastico” presso Current, Milano, 2019. KRUBERO, 2019. Ceramica smaltata ad alta temperatura, 98x67x16 cm. Esposto in occasione di “Screen Tearing” presso Dimora Artica, Milano, 2019. Per entrambe foto © Michele Fanucci, courtesy dell’artista.

© 2019 BOX ART & CO.

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