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UN DISCORSO SULLA PLAUSIBILITÀ

Angelo Sarleti                                                                    

– Gregorio Raspa

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Gregorio Raspa/ Angelo, come è nata l’idea di porre al centro della tua ricerca artistica il complesso mondo dell’economia e della finanza?

Angelo Sarleti/ La mia è un’unica lunga ricerca. È da anni ormai che guardo sempre lo stesso soggetto e non sono certo il primo a farlo. Se ci pensi, l’individuazione di un soggetto forte si è sempre manifestata nella storia dell’arte. Nei miei lavori la finanza diventa arte nello stesso modo in cui in passato lo sono diventati la religione, il potere e la storia. L’ingegneria finanziaria è esoterica come un rito religioso. Le banche finanziano l’arte come in passato facevano le corti e una crisi finanziaria può avere le stesse conseguenze sociali di una guerra.

GR/ Le fonti citate nei tuoi lavori, i riferimenti puntuali in essi contenuti e il rigore logico sottostante la loro costruzione sono tutti elementi che richiedono un lungo processo preliminare di studio e documentazione. Come, e con quali strumenti, affronti quest’ultimo?

AS/ Cerco sempre di utilizzare le fonti istituzionali per una completezza d’informazione. Ho sempre avuto il bisogno di “costruirmi” il dato. Per fare ciò utilizzo più database. Solo in questo modo un lavoro è veramente autoriale fin dalla ricerca delle fonti. Altrimenti si cade in dinamiche pop, nel ready made o, peggio ancora, nel sentimentalismo.

GR/ La tua opera appare come la trasposizione pittorica di scenari statistici e grandezze economiche autosufficienti e oggettivamente interpretabili. Rispetto a tali fenomeni il tuo approccio appare quasi neutro, figlio – mi sembra di capire – di un pensiero critico ma non allineato. È realmente così?

AS/ Spesso la controinformazione, per quanto accattivante, appare di parte o manifesta delle lacune perché si concentra su un particolare anziché valutare il contesto più ampio di un fenomeno. Il solo database dell’IMF, se letto attentamente, contiene al suo interno abbastanza informazioni per potersi indignare. Anche se questo può apparire un approccio reazionario, in realtà cerco semplicemente di ribadire un discorso sulla plausibilità.

GR/ Cosa il tuo tratto pittorico – necessariamente incline ad una soggettività propria del gesto artistico – aggiunge (o rivela) dei dati “ritratti” e del loro significato?

AS/ Per me è stato sempre fondamentale cercare di interpretare non solo gli argomenti di cui mi sono occupato, ma anche di essere fedele al modo in cui questi si manifestano nella realtà. I prodotti finanziari sulla carta sono esatti, ma quando sono messi in pratica si scontrano con l’imprevisto umano. Se i miei lavori fossero delle stampe realizzate meccanicamente questa caratteristica fondamentale andrebbe persa. I miei quadri sono dipinti e non colorati. Tradiscono la mano che li ha realizzati. Nell’economia di un quadro costruito con i numeri, una linea storta o una goccia di colore caduta involontariamente può essere paragonabile al cittadino americano che non è riuscito a pagare il mutuo. Questa per me è quella che in altri ambiti viene chiamata informazione aumentata.

GR/ Dal punto di vista strettamente artistico, il tuo lavoro sembra riattivare la tradizione compendiando in un unico linguaggio i caratteri della referenzialità al reale, dell’espressività gestuale e del significato sotteso. Più nello specifico, quali sono i riferimenti pittorici che hanno guidato la tua formazione e oggi orientano la tua ricerca? 

AS/ Sono talmente tanti che non basterebbero le battute di questa intervista. Prima di iniziare un quadro non posso che pensare ai secoli di pittura che mi hanno preceduto. Quello che cerco di dipingere non è più astratto della luce che Rembrandt cercava di catturare.

GR/ Negli ultimi anni hai prima analizzato la crisi economica e poi descritto – come nella tua ultima mostra “Too big to fail o sull’immobilismo precario” – la sua strutturale persistenza. Mi parli di questo percorso dotato, a ben guardare, di una matrice unitaria?

AS/ Nel mio lavoro un’opera è sempre stata propedeutica a quella successiva. Dai video in cui violavo la privacy delle persone (2001-2005), sono arrivato all’installazione Not here (2006), una tramatura di dimensione ambientale che era la visione al microscopio dei soggetti precedenti. Come sappiamo il microcosmo è simile al macro e quindi mi sono ritrovato a spiare quelle dinamiche che regolano la nostra vita quotidiana. È stato lo stesso passaggio avvenuto nelle Information Tecnologies che dalla videosorveglianza sono passati al controllo incrociato di dati sensibili. Quindi, dopo un censimento dei potenti con Billionairs (2009), il ritratto del sistema economico mondiale di Mammona (2012) e la visualizzazione istantanea della crisi appena avvenuta con Antologia (2013), ho cercato di capire quello che era successo dopo, cioè quell’immobilismo precario che stiamo vivendo, riassunto nell’ultima mostra.

GR/ Nelle tue opere si riflette una contemporaneità geopoliticamente dinamica ed economicamente sclerotica, ingabbiata in una crisi senza fine. Oggi il mondo, in cerca di soluzioni, s’interroga sulla bontà di modelli alternativi a quelli imperanti. All’interno di questo dibattito, quale contributo può offrire un artista con le sue opere? Eco credeva nel potere dell’arte di creare immagini del mondo da utilizzare come “metafore epistemologiche” per la sua reinvenzione. E tu? 

AS/ Semplificando di molto il principio di indeterminazione di Heisenberg, penso che l’atto di osservare un fenomeno riesca da solo a modificare il fenomeno stesso. Ecco, è questo il mio gesto politico.

 TOO BIG TO FAIL O SULL’IMMOBILISMO PRECARIO, 2016. Veduta della mostra. Courtesy dellʼartista e della Galleria Six, Milano.

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