Distanze e sfumature di un luogo | La MO’DINNA di Antonio Rovaldi alla galleria Metronom di Modena

di Enrico Turchi

Storie di presenze e fantasmi che cercano di affermarsi nel vuoto, un soffio di vento fa girare su sé stesso un ombrello bianco sull’ampia strada di cemento costeggiata dai radi cespugli del deserto del Nevada. Proprio qui al confine con lo stato dello Utah ha luogo una piccola cittadina, in realtà non più dell’aggregato di qualche casa intorno ai rottami di un vasto cimitero fatto di macchine arrugginite dal tempo. A chiamarla Modena sembra sia stato l’urlo di un ristoratore cinese in cerca di attirare clientela: «Mo’dinna, mo’dinna?», rara assonanza con il dinner di «Venite. È qui la cena!».

Esiste poi davvero la strada tra Modena e Parma, e quella tra Modena e il suo alter ego negli Stati Uniti? Esistono questi luoghi se a imprimerli nella memoria è l’occhio meccanico di una fotografia che ha come oggetto il cigolio di altalene vuote, relitti di case di campagna e roulotte abbandonate, le “strade perdute” di una tramvia e le insegne sopravvissute ai vecchi locali sfitti? Esistono poi infine i paesaggi e personaggi in qualsiasi tipo di rappresentazione?

Domande di queste tipo che affiorano davanti alla serie di sessanta fotografie realizzate da Antonio Rovaldi in occasione del festival Fotografia Europea 2016. La ricerca gira attorno al catalogo di Esplorazioni sulla via Emilia, mostra organizzata a Reggio Emilia, Bologna e Ferrara nel 1986 con i testi e le fotografie di Italo Calvino, Gianni Celati, Olivo Barbieri, Luigi Ghirri… Suddiviso in due tomi dedicati agli scritti e alle immagini, questo catalogo è oggi oggetto raro e imprescindibile per comprendere l’evoluzione della Scuola Italiana di Paesaggio dagli anni ’80 in avanti, in coppia ideale con il celebre Viaggio in Italia di Luigi Ghirri, di recente riedizione. Pensato all’interno del progetto 2016. Nuove Esplorazioni, il lavoro di Rovaldi cerca così di raccontare come è cambiato il modo di rappresentare la via Emilia proprio a trent’anni di distanza dalla feconda esperienza del 1986.

L’esposizione MO’DINNA MO’DINNA (I wanna go back home) ripropone presso la galleria Metronom di Modena, le stesse fotografie di Rovaldi in un nuovo allestimento che premia la sequenza degli scatti dedicati alla “ghost town” nel Nevada e sulla strada tra Modena e Parma. Arricchita dall’ascolto di una registrazione sonora integrata all’ambiente interno della sala, la mostra, curata da Marcella Manni, ha inaugurato martedì 17 dicembre 2024 e sarà fruibile fino al 21 febbraio 2025.

Raccontando della sua esperienza, Rovaldi dice come abbia preso il volo per gli Stati Uniti e guidato fino alla Modena in Nevada, dove ha trascorso un’intera giornata a fotografare, facendo conoscenza con alcune persone locali (la “cittadina” conta ad oggi soli cinque nuclei familiari). Rientrato in Italia ha poi percorso a piedi il tratto della via Emilia tra la nativa Parma e Modena, dove rincorrere l’atmosfera già provata negli ampi spazi, vuoti e deserti, del West americano. L’esperienza corporea del cammino è da mettere a confronto con il racconto che dello stesso tragitto narrano altri autori, come quelli dell’86. Emerge così una continuità di pensiero e una sensibilità affine dell’esperienza del medesimo tracciato di strada, anche su un piano concettuale, dove il paesaggio italiano è ritratto come immagine antimitica e antieroica, non retorica e quotidiana, invece del luogo sensazionalistico e meraviglioso promosso dagli stereotipi più edificanti e diffusi sul nostro paese

Affine a legare i suoi appunti fotografici a un messaggio scritto, Rovaldi dedica poi una lettera a Vincent, l’uomo che lo ha accolto nella sua abitazione all’arrivo nella sperduta Modena del deserto. La nebbia padana sfuma le distanze tra i luoghi, e il fotografo ha l’impressione di trovarsi ancora a due passi dalla scuola di Vincent, nei pressi della ferrovia. Il passaggio di un treno merci delocalizza poi del tutto la normale cognizione spaziale. L’esperienza del viaggio finisce per essere così strettamente legata al sentore del tempo. Come nel racconto di Calvino, c’è sempre un io in movimento che descrive un paesaggio in movimento, fino quasi a perdere certezza del punto fermo in cui ci troviamo soltanto a ergerci fisicamente.

La fase di post produzione in studio è volta a ripercorrere lo stesso viaggio per scegliere le immagini e adattarle alla tipica scala di grigi, oltre a disporre una sequenza in cui la scansione delle fotografie possa crescere in un racconto coerente. Sul retro del pannello all’ingresso troviamo l’aggiunta di una piccola fotografia che ritrae l’autore da giovane a dondolarsi su un’altalena. Benché piena di una figura anche quest’immagine non fa che perdersi ugualmente nel ricordo. La mancanza di presenze fisiche nei luoghi ritratti da adito a un’ulteriore sfumatura, passaggi di tono che come tra una coltre di nebbia collegano tra loro realtà distanti e incongrue, di cui non riuscire nettamente a mettere a fuoco le prove e le stesse ragioni d’esistenza. La fotografia di Rovaldi si rivela così adatta a fornirci una rappresentazione tangibile della distanza, secondo una narrazione che lega tra loro ricordi reali, letterari, collettivi e memorie autobiografiche, senza mai riuscire ad aggirare i nostri interrogativi intorno alla percezione fisica del luogo.

 

Dall’alto: Antonio Rovaldi, MO’DINNA MO’DINNA (I wanna go back home), 2016, courtesy the artist and Metronom. MO’DINNA MO’DINNA (I WANNA GO BACK HOME), 2024, courtesy Metronom, installation view 1.

 

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