di Loredana Barillaro |
Lo scorso mese di aprile ha preso avviso negli spazi de La Galleria BPER Banca di Modena la mostra dal titolo Ferine Creature. Centauri, fauni, miti nell’opera di Jules Van Biesbroeck e nell’immaginario moderno, a cura di Luciano Rivi. Incentrata sulla figura mitologica del centauro l’esposizione ci permette di riflettere sulla condizione umana considerata nel suo innato districarsi fra ragione e natura selvaggia, fra pulsioni personali e convenzioni sociali che sottendono da sempre all’essere umano.
Il percorso espositivo muove dunque dal pittore e scultore belga Jules van Biesbroeck di cui la corporate collection del gruppo BPER possiede ben 39 opere fra dipinti, sculture e disegni. Come altre mostre de La Galleria BPER anche questa tende a riflettere – mediante la vena simbolista – su temi legati alla psiche umana. Al contempo dimostra come l’interesse sia anche quello di far emergere artisti talora sconosciuti ai più, conferendovi la stessa visibilità tributata a protagonisti più noti al grande pubblico.
La mostra si compone di tre sezioni: la prima è Van Biesbroeck simbolista: figure e paesaggi del mito “dedicata alla produzione a soggetto mitologico dell’artista, a partire dal nucleo di opere della collezione de La Galleria BPER Banca estendendosi a prestiti di altre collezioni private e pubbliche”. La seconda, denominata La visione panica della natura e il centauro nel Simbolismo tra Otto e Novecento “esplora come il centauro diventi una figura ricorrente nell’arte simbolista tra il XIX e il XX secolo, in un clima culturale di critica alla filosofia positivista che spinge gli artisti a ripiegare su atmosfere intimiste e nostalgiche”. Infine, la terza sezione, Una figura archetipica dal repertorio mitologico: il centauro nei secoli, “indaga la figura del centauro dal Cinquecento ai giorni nostri, mettendo in luce come il suo mito abbia attraversato diverse epoche assumendo significati sempre nuovi”.
Un nucleo di opere mediante cui avvertiamo come l’essenza del Centauro sia presente nelle nostre vite più di quanto pensiamo, nella nostra in fondo ambivalente natura perennemente in bilico fra ragione e istinto. E che permette di conoscere quale sia stata l’evoluzione dello stile e della poetica di van Biesbroeck a partire da un fare “michelangiolesco” – colto nel suo vigoroso plasticismo – rintracciabile nella scultura in gesso dal titolo Pan del 1910 la quale richiama l’energia del genio italiano di alcune Pietà o dei Prigioni, nel loro contorcersi per emergere dalla materia con forza titanica. Uno stile che man mano è andato in parte alleggerendosi ma che si connota per un fare dirompente nella trattazione del colore così come emerge dall’opera Centauro che uccide un cervo del 1918 – nodo centrale dell’esposizione, in cui è dipinto un centauro che solleva in trionfo le corna di un cervo appena catturato – in un rimando alla doppia natura dell’essere umano da cui spicca tutta l’energia ferina della creatura mitologica e per la cui realizzazione l’artista si è ispirato ad una laude di Gabriele D’Annunzio. Man mano che si percorrono le sale ci accorgiamo pertanto di come muti, gradatamente, il modo di dipingere dell’artista, il modo di trattare la superficie e la materia cromatica la quale diventa più intensa, carnale.
Le opere di van Biesbroeck si realizzano quindi secondo una maniera che tiene pienamente conto della tradizione artistica italiana; l’Italia in fondo gli ha dato i natali, a Portici, durante uno dei viaggi dei suoi genitori nel Bel Paese sulla scia della più antica pratica del Grand Tour.
Una mostra che – con il coinvolgimento di altri artisti – attraversa tutte le fasi fino alla contemporaneità, passando per il periodo futurista in cui l’essere umano diventa centauro ibridandosi non più con l’animale bensì con le ruote della motocicletta, contaminazione esemplificativa del bisogno di azione e velocità, temi cari ai futuristi nei primi anni Trenta del secolo scorso; ad illustrare questa fase alcuni manifesti dell’epoca e un lavoro di Achille Funi, sino a giungere alla propaganda cinematografica degli anni Sessanta.
Il progetto curatoriale – in cui il rapporto fra passato e presente e il confronto con la contemporaneità sono filo conduttore – tiene conto anche dello spazio in cui la mostra prende corpo, quale misura e passo da cui partire per dar vita ad un lavoro plurale ma capace al contempo di focalizzarsi su singoli punti.
Un percorso circolare che dalla contemporaneità di Luigi Ontani ad essa ritorna allorché in chiusura troviamo – subito dopo il dipinto Chirone di Alberto Savinio – l’opera di Wainer Vaccari dal titolo Sono Chirone…sono tornato commissionato appositamente per la mostra ed entrato a far parte della collezione BPER. Un’opera in cui balena un moto di speranza per l’essere umano, una sorta di andamento ascensionale nel momento in cui l’animale “prende” le sembianze umane mediante un tratto pittorico su cui il curatore invita a soffermarsi proprio quale momento di passaggio, di metamorfosi, di abbandono della ferocia animale. Qui Chirone brandendo una torcia illumina la scena e, ritrovando una natura benigna, osserva la figura che probabilmente sta per salvare, sta per trarre via dalla morte.
Il progetto ideato dal curatore mira alla semplificazione, ad una semplificazione che può attuarsi solo laddove vi sia un approccio intelligente e lungimirante, per condurre i piani di lettura ad una piena accessibilità e comprensione per un pubblico sempre più ampio e variegato.
Dall’alto: Vedute della mostra; Wainer Vaccari, Sono Chirone… sono tornato. Courtesy La Galleria BPER, Modena.
© Loredana Barillaro e SMALL ZINE