FUORI FUOCO: La ricerca di un punto di vista decentrato

Intervista al curatore Davide Silvioli

di Francesca Policastri

Evento contenuto nei tempi e nelle dimensioni ma dal ricercato spessore qualitativo, Fuori Fuoco è un progetto a metà fra mostra e opera editoriale, che pone in dialogo lavori di Claudia Angrisani, Meri Tancredi, Sara Tosti, Medina Zabo. A cura di Davide Silvioli, si tratta un’iniziativa che raccorda le opere delle quattro artiste sulla base di una sensibilità comune derivante dalla condivisione dello stesso spazio, in esposizione, e dello stesso tempo, nell’esperire la genealogia della mostra, anziché farlo a partire da un medium o una tematica. Il curatore, in questa intervista, approfondirà gli aspetti principali di questo progetto plasmato al plurale.

Francesca Policastri/ Innanzitutto, a cosa vuole comunicare, nello specifico, il titolo del progetto?

Davide Silvioli/ Se nel gergo comune la dicitura “fuori fuoco” è utilizzata per indicare qualcosa di opaco e non perfettamente definibile, nell’organicità del progetto essa è impugnata in sede di titolazione al fine di trasmettere un significato duplice. In primis, il riferimento al fuoco non è solo metaforico ma anche letterale, poiché il progetto è sorto a partire da una riflessione collettiva intorno all’atto del “bruciare” come parafrasi dell’esperienza sia esistenziale che artistica, a sua volta riproposto fisicamente in esposizione dal lavoro Come corpo illimitato, di Meri Tancerdi, che prevede la combustione di piccoli scampoli di carta. In secondo luogo, l’espressione “fuori fuoco”, relativamente al progetto, allude all’impossibilità di giungere a uno stadio ultimo di un concetto, di una situazione o di un’interpretazione; insomma, di avere una visione nitida e univoca su una singola questione. Invero, così come scritto nella premessa metodologica d’introduzione al libro, l’intero progetto è «progredito al ritmo dell’irregolarità intensiva dell’ardere di un fuco, che trasforma le cose che investe e dalle stesse è trasformato». Fuori Fuoco, non a caso, dal punto di vista critico, intende tradurre come e quanto i fattori del cambiamento, della conversione, della reciprocità, della trasformazione, dell’impermanenza e dell’incompiutezza possano delinearsi come proprietà costitutive della dell’opera d’arte.

FP/ Qual è il tratto condiviso che accomuna una selezione di opere tanto diverse?

DS/ Il comune denominatore estetico, in tanta pluralità stilistica e tecnica, è da rintracciarsi proprio nel perseguire, da parte delle quattro artiste e nei ranghi del lavoro di ciascuna, la nozione di opera d’arte come risultato di processi di trasformazione. Ogni singolo lavoro presente costituisce l’esito di una metodologia che ha previsto, nella sua applicazione, il passaggio da un ambito operativo a un altro, un procedimento fondato sulla reciprocità fra materia e materiale, un grado di incertezza determinante. Nel primo caso si pensi alle Opere su carta di Medina Zabo, risultato di una procedura di conversione di tre sue sculture che transita dal reale al virtuale, fino a generare morfologie e colori memori di dell’opera fisica ma riformulati secondo un’estetica dalla eco digitale, in cui l’intervento manuale dell’artista erode ancor maggiormente il confine fra i due contesti. Nondimeno, il suo (lavorare) sulla poetica è ugualmente in linea con tale attitudine, mutando ulteriormente le carte suddette in frazioni dal lato di 4 pixel e aperti a infinite alternative combinatorie. Nel secondo esempio si rinvia ai lavori di Sara Tosti, che, sia in Confini arati che nel dittico Incendio di residui colturali, hanno implicato l’esercizio di un rapporto di azione e razione fra il supporto e il medium, dal cui contrasto sono sortite le irregolarità che ne qualificano le superfici. Nel terzo, invece, si veda come entrambi i lavori di Claudia Angrisani – il trittico L’ acacia di Costantinopoli e Abito –siano forieri del senso della caducità derivante dall’impiego dei pastelli a olio sulla tela, corroborato dal fatto che la sua opera Abito, negli ultimi sette anni, è stata mantenuta ripiegata su se stessa, facendo sì che i pattern della superficie lavorata si modificassero spontaneamente al di fuori del controllo dell’autrice. Le medesime ragioni giustificano gli altri due lavori di Meri Tancredi, il video Basta muoversi lungo l’asse orizzontale e Stanza 1120, che, simultaneamente, scompongono e ricodificano mediante altri mezzi la parte visiva e uditiva di un’esperienza. Infine, a quanto già espresso dalle artiste in mostra, nella giornata conclusiva dell’evento, si aggiungerà il contributo dell’artista e performer Sara Ceruti, con un intervento strettamente connesso alla genetica di Fuori Fuoco.

FP/ Quali sono, nella sua totalità, gli attributi più significativi di Fuori Fuoco?

DS/ Complessivamente, Fuori Fuoco rappresenta un progetto, sia di mostra che editoriale, in contravvenzione consapevole ad alcune delle consuetudini più ordinarie della curatela odierna, conseguente a una personale insofferenza verso l’edulcorazione esercitata dal white cube rispetto alla costruzione del dispositivo di mostra. L’approccio allo spazio, anziché essere dettato dal curatore, ha visto la sinergia di tutte e cinque le nostre professionalità, di modo da rispecchiare la coralità che, sotto forma di conversazione, identifica l’incedere testuale della relativa pubblicazione. Da qui – sulla convinzione che siano sempre le opere a fare la mostra e mai il contenitore – deriva la decisione di includere ogni artista con più di un lavoro, con l’obiettivo di restituire il carattere plurale che ha sovrinteso la conformazione dei contenuti del libro. Per riflettere quest’ultimo, quindi, l’allestimento è stato elaborato secondo un criterio dialogico che cerca, senza sterilizzare le differenze, di svelare sottili convergenze. In questa ottica è da considerarsi la scelta di stabilire coesistenza fra un’opera della Tancredi e un pezzo della Angrisani. È indubbio, tuttavia, che il suo essere in controtendenza a una contemporaneità sempre più assuefatta dal sovraesposto, dal didascalico e dalle cosiddette “best practices” richiede, collateralmente, una revisione degli strumenti con cui oggigiorno si è soliti fruire le mostre e, più in generale, l’arte contemporanea.  

FP/ Quale relazione lega l’esposizione e la pubblicazione?

DS/ Fra le due intercorre una relazione di complementarietà e sono state distinte durante la presentazione del progetto per finalità esclusivamente esplicative. Nella sua integrità, Fuori Fuoco è un’operazione unica costituita da due facce non scindibili; la mostra e la pubblicazione. Quale sia nata prima dell’altra o cosa discenda da che cosa è impossibile da determinare, poiché la prima si è strutturata sulla base della seconda, che, a sua volta, si è delineata sul pensiero della prima. Fuori Fuoco, su questa linea, porta in esposizione opere di quattro artiste differenti per linguaggio, tecnica ed estetica, le quali hanno fatto reagire il lavoro di ciascuna con quello dell’altra, ponendo le rispettive ricerche sul piano inclinato delle argomentazioni, fino a rivelare sia assonanze impreviste che sane disparità. Con lo stesso atteggiamento, Fuori Fuoco si traduce su carta, sotto la forma di un’opera editoriale – edita da freemocco edizioni – che parla della mostra senza mai descriverla, della ricerca di ogni artista senza mai catalogarla, del pensiero dietro al progetto senza mai decifrarlo espressamente. Il relativo riflesso editoriale, sospeso fra libro d’artista, catalogo, biografia, manifesto artistico, saggio critico e d’autocritica, è così pensato per restituire l’instabilità del terreno magmatico su cui è radicato il progetto, da dove tutto appare fuori fuoco.

Per tutte: Fuori Fuoco, veduta della mostra, 2022. Studio Attilio Quintili, Deruta (Pg). 

© 2022 BOX ART & CO.

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