I MONUMENTI E LO SPAZIO PUBBLICO

Intervista a Roberto Pinto 

di Valentina Tebala                                                                                                     

Roberto Pinto è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Bologna, critico, saggista e curatore. Tra i suoi interessi di ricerca è da sempre presente la Public Art ovvero le dinamiche dell’arte contemporanea situata e in relazione con gli spazi pubblici, rispetto anche alle contraddizioni e alle potenzialità che la attraversano.

Valentina Tebala/ Professore, per prima cosa proviamo a contestualizzare il problema. Dalle rivolte organizzate in America dal movimento Black Lives Matter, che hanno attraversato l’Europa raggiungendo pure l’Italia, riemerge lo spettro di una questione tanto importante quanto irrisolta perché evidentemente finora – almeno in ambito italiano – trattata con superficialità. Una questione che in queste settimane però sembra essere divenuta urgente: come interagire e rapportarsi nei confronti dei monumenti e di un patrimonio storico ereditati da un passato anche molto recente, che oggi ci appaiono controversi, ambigui o semplicemente inaccettabili per una società basata su valori democratici?

Roberto Pinto/ Su questi episodi occorrerebbe fare un discorso articolato. Possiamo iniziare dalla constatazione che nel corso della storia i monumenti sono stati usati dal potere politico come simboli da posizionare nei luoghi strategici della città per ribadire e, per certi versi, legittimare la propria posizione di supremazia e/o il proprio stesso ruolo. In quasi tutti i passaggi storici in cui avviene un cambiamento radicale, i monumenti cadono o vengono eretti. L’unificazione dell’Italia è stata simbolicamente sancita anche dai tanti monumenti rappresentanti Vittorio Emanuele o Garibaldi che arricchiscono le nostre piazze. Analogamente le cadute di regimi totalitari sono state accompagnate dalla distruzione delle icone ad esse legate. In Europa sono ancora relativamente fresche le immagini dell’abbattimento delle statue legate al potere Sovietico nei Paesi satellite che si volevano liberare della sua ingombrante e spesso violenta influenza; nello stesso modo si è agito in Medio Oriente con le distruzioni delle statue di Saddam Hussein o in Libia con quelle di Gheddafi. Un discorso a parte si potrebbe fare riguardo la politica terroristica dell’ISIS che nei territori da essa controllati usava l’abbattimento dei simboli culturali (statue, edifici, biblioteche e persino moschee) come una strategia di propaganda e per incutere timore all’avversario. Sintetizzando, si può affermare che il monumento, per sua natura, è al contempo frutto e strumento dell’affermazione del potere che è coinvolto sia nel processo che porta alla sua costruzione sia in quello che ne determina la distruzione; più tale potere è privo di dubbi, più questo processo di costruzione e distruzione sarà radicale e repentino. Inoltre, dobbiamo sottolineare che la complessità del processo democratico spesso non può sentirsi completamente rispecchiata dall’assertività della tradizione monumentale e, fatalmente, nei momenti di crisi democratica – quando i governi non riescono (o non vogliono) rispondere alla richiesta di uguaglianza e di giustizia, che sono implicitamente promesse della democrazia – le statue possono diventare bersagli facilmente identificabili per attaccare un governo o i residui ideologici di epoche passate che il potere vuole che rimangano radicati in quella attuale. Persino alcuni dei più importanti monumenti del nostro recente passato dedicati alle sconfitte e ai martiri – penso ai caduti nelle guerre, ma soprattutto alle vittime di stragi, di stermini o dell’olocausto – che continuano ad adempiere alla loro funzione originaria, subiscono di tanto in tanto oltraggi da gruppi (per fortuna minoritari) negazionisti o fascisti. L’attuale protesta che ha preso di mira alcune sculture simboliche, dunque, non è affatto un fenomeno sorprendente ma, invece, ricorrente e a volte direi quasi necessario. Ovviamente da storico dell’arte non posso ignorare che le statue abbiano anche un valore storico e artistico e, soprattutto per quei valori, credo che sia fuorviante mescolare i problemi legati ai monumenti del passato con quelli che appartengono ai nostri tempi, ovvero ciò che noi vogliamo lasciare in eredità alla posterità. Mi riferisco soprattutto alla situazione italiana e alle manifestazioni che hanno visto come bersaglio la statua di Indro Montanelli a Milano. Questa statua è uno dei pochi omaggi a una singola persona che la nostra epoca ha prodotto: ricordo che è stata eretta nel 2006 dallo scultore Vito Tongiani per volere della giunta Albertini ed è stata posizionata in un parco molto amato dai cittadini, vicino al luogo dove il giornalista ha subìto un attentato a opera delle Brigate Rosse. Si tratta perciò di un monumento che non possiede una sedimentazione temporale e storica, ma rappresenta la politica di oggi, il nostro lascito alle generazioni future. Credo, dunque, che mentre dovremmo cercare di arricchire di informazioni e non certo pensare di eliminare alcuni dei monumenti fascisti (come il Foro Italico pieno di iscrizioni che esaltano Mussolini) che compaiono in molte città italiane, sia necessario assumere un’altra prospettiva di visione se abbiamo a che fare con i monumenti degli ultimi anni. In fondo lo spirito della legislazione che tutela i beni culturali, cioè intervenire dopo un determinato numero di anni, ha un senso ben preciso: fino a un certo punto decide il dibattito politico/estetico, poi è la storia a prendere il sopravvento. Cancellare la storia del nostro Paese mi sembra un atto poco sensato, da cui tra l’altro deriva spesso una certa miopia nel giudicare il presente. Piuttosto che eliminare questa memoria – o far finta che il fascismo non sia stato in fondo così cattivo – penso che dovremmo assumerci l’onere di una tale eredità esponendola, ma provvedendo ad accompagnarne la presenza con un’informazione che ne mostri le forme all’interno del loro contesto e del loro significato; anche esplicitando quali “modelli” ci trasmettono, per esempio a livello identitario: ovvero figure femminili del tutto subordinate a quelle maschili, a loro volta conformi a un ideale virile, di guerriero che obbedisce senza porsi delle domande. La cancellazione di quella storia porterebbe con sé il rischio che ci si dimentichi della sua pericolosità. In linea generale, quindi, sono dell’opinione che il patrimonio storico debba sempre essere conservato, preservato, però anche compreso nella sua interezza. Gli episodi a cui facevi riferimento nella tua domanda devono essere contestualizzati per capire i problemi e le possibili soluzioni. È vero che le proteste in atto in America hanno avuto un’eco in Europa, ma sono due contesti differenti con storie e simboli che possono variare. Colombo in un contesto americano non può essere semplicemente un viaggiatore, il simbolo dell’uomo nuovo che spinto dalla curiosità e dalla voglia di conoscere si imbarca alla ricerca di strade alternative per raggiungere l’Oriente, ma diventa il primo tra gli europei che “scopre” un mondo già abitato da popolazioni e civiltà, il primo che nel nome dei valori dell’Europa porterà tra i nativi stermini e schiavitù. Anche se, ovviamente, non possiamo addossare tutte le colpe a Colombo o, tantomeno, alle sue statue. Tornando a Montanelli non si può nascondere il fatto che sia stata anche una persona simbolo di alcune rimozioni tipiche della nostra società italiana, soprattutto perché non ha mai accettato e ammesso i propri errori e il proprio trascorso. Dunque, esporre oggi una statua di Montanelli, come se fosse un esempio o un modello da celebrare, non mi sembra affatto opportuno. Pure perché a Milano in epoche recenti non sono state erette statue celebrative, non ci sono monumenti dedicati a singole persone. Quella dedicata a Montanelli è una sorta di unicum, almeno negli ultimi quindici o vent’anni. È possibile che a Milano noi lasciamo in eredità ai posteri soltanto quel tipo di modello? È corretto questo modo di agire in una situazione democratica? A parer mio, no. È vero che non credo esistano figure totalmente condivise, ma è vero anche che esistono modelli meno controversi. Penso per esempio a Umberto Eco, intellettuale, scrittore e professore che è vissuto a lungo ed è morto qui a Milano: una figura importantissima per lo sviluppo della cultura italiana e internazionale (inviterei a scorrere l’elenco delle lauree honoris causa che ha ricevuto dalle università più prestigiose). Ci dovremmo chiedere, inoltre, perché ci siano così poche statue dedicate a figure femminili. D’altro canto, bisogna essere consapevoli che il ruolo della statua come celebrazione di una singola persona – nelle vesti eroiche che ci impone la statuaria tradizionale – non è più adatto alla nostra società. Sicuramente Umberto Eco avrebbe preferito un centro di ricerche e di studi ad una sua statua; e le tante donne milanesi che sono state un esempio per la nostra città, forse non avrebbero voluto essere ricordate attraverso un monumento celebrativo.

VT/ Certo, ormai si tratta di un modello estetico e culturale superato, anche dal punto di vista di una concezione e di un rapporto con l’immagine totalmente cambiato.

RP/ Sì, sono superate anche nel ruolo di autocelebrazione del potere, il loro ruolo simbolico non è più attuale. Quando il potere vuole autocelebrarsi lo fa attraverso una diretta twitter o televisiva, che arriva immediatamente a un pubblico molto più vasto, certamente con un linguaggio meno elaborato e ricco di sfumature.

VT/ Ad ogni modo, prima dell’imbrattamento, il movimento dei Sentinelli aveva chiesto all’amministrazione comunale la rimozione della statua di Montanelli, o quantomeno l’attivazione di un dibattito pubblico e aperto sul monumento. Soluzione che sarebbe stata auspicabile, ma che invece è stata negata…

RP/ Sì, hai ragione (e precisiamo che i Sentinelli avevano posto il problema mentre altri hanno imbrattato la statua). Il nodo rimane quello di chi decide cosa rappresentare e quali possono essere i simboli condivisi in una società frammentata, in cui a un approfondito dibattito politico si è spesso preferito lo slogan elettorale e il comportamento da tifosi di calcio. Credo sarebbe sicuramente auspicabile che venisse istituito un “Archivio Montanelli”, magari all’interno di una sala di una biblioteca comunale, in modo che le qualità e i lasciti professionali di Montanelli giornalista non vadano persi, fornendo al contempo la possibilità a ognuno di costruirsi una propria opinione sulla sua figura. Quella statua, invece, è divisiva. Personalmente non mi ci riconosco affatto nell’interezza della sua persona, tantomeno credo sia possibile poterla celebrare come simbolo della nostra epoca; al contrario sono interessato a quello che è stato il suo lavoro di giornalista.

VT/ Magari la si potrebbe rimuovere dal parco e ricollocare in un’ipotetica sala insieme al suo archivio…

RP/ Potrebbe essere sicuramente una soluzione da prendere in considerazione. Oltretutto, come già sottolineato, quella statua non corrisponde affatto ai nostri attuali modelli estetici: in questo senso l’amministrazione Albertini pensava di fare una scelta apparentemente “neutra”, un’attualizzazione, popolarmente accettabile, di canoni tradizionali. Un modo per non rischiare di suscitare il malcontento dei cittadini. Dal mio punto di vista, però, i risultati formali non sono soddisfacenti.

VT/ A proposito di interventi nello spazio pubblico realizzati in maniera un po’ semplicistica o grossolana, anche dal punto di vista estetico, è evidente la superficialità delle istituzioni – nella stragrande maggioranza dei casi – quando decidono di porre un qualsiasi monumento nel contesto urbano, che sia in una piazza o al centro di una rotatoria. Tuttavia, è risaputo quanto sia dannosa per il benessere psico-fisico dei cittadini una pianificazione urbanistica svogliata e priva di attenzioni e/o professionalità specialistiche.

RP/ Tocchi uno dei “soliti” problemi: nella cultura (e direi nell’arte in particolare) la nostra professionalità non viene riconosciuta, si azzera il valore delle competenze a favore del gusto personale di politici e amministratori (in fondo gli artisti sono quelli che ci fanno divertire…). Con questo non sto affermando che le scelte determinate da storici dell’arte o critici d’arte siano sempre risultate corrette, opportune e condivisibili. È chiaro, però, che un professionista del settore – possedendo una vicinanza maggiore con i problemi estetici e linguistici – può avere una coscienza più profonda della funzione dell’oggetto artistico all’interno dello spazio pubblico, e rivolgersi agli artisti più interessanti a livello locale e internazionale. Tuttavia non credo ci sia una formula universale in grado di risolvere i problemi, anche perché in tanti episodi della storia recenti è emerso come opere ritenute importanti per la comunità artistica (si pensi al lavoro Tilted Arc di Richard Serra a New York o a House di Rachel Whiteread a Londra) sono state invece rifiutate dai cittadini. In tutte le occasioni in cui ho lavorato a progetti artistici, temporanei o permanenti, negli spazi pubblici, le questioni su come intervenire sono sempre state presenti. In ogni caso credo che sia importante trovare delle linee guida al fine di sviluppare strategie condivise per la pianificazione di opere d’arte sui territori. Forse comincerei a evitare di realizzare interventi artistici negli svincoli autostradali, lasciandoli come spazi verdi, dato che sono luoghi penalizzanti per gli stessi artisti e le loro opere. Piuttosto mi concentrerei sulle città o sui luoghi dove si cammina, dove si può sostare per vedere e “usare” le opere d’arte. Le istituzioni, i Comuni e le Regioni, dovrebbero – seguendo semplicemente il buon senso – ricorrere a esperti anche in questo campo, in modo analogo a quanto si è abituati a fare con avvocati, urbanisti o economisti. Quando si intende realizzare un’opera è fondamentale che si consulti chi lavora professionalmente con l’arte contemporanea. Dovrebbe essere un’ovvietà, ma purtroppo la prassi è esattamente il contrario.

*Intervista realizzata il 19 giugno 2020

Dall’alto: La statua di Indro Montanelli a Milano imbrattata. Richard Serra, Tilted Arc, 1981-89, New York.

© 2020 BOX ART & CO.

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