INTERVIEWS

SPETTRI D’ITALIA

Flavio Favelli

– Valentina Tebala

Valentina Tebala/ Caro Flavio, non potrei iniziare l’intervista senza introdurre il motivo per cui ci siamo conosciuti che è anche il medesimo per il quale io stessa ho avuto modo di approfondire il tuo lavoro. Ovvero il murale che hai realizzato a Cosenza invitato ai BoCs Art nel 2015 e la diatriba che ne è conseguita tra gli addetti ai lavori e non, a proposito di Arte Pubblica. Ma un elemento che mi ha colpita – nel marasma di spunti di riflessione nati da quella vicenda – è il tuo rapporto con il Sud d’Italia. Mi pare di avvertire un’attrazione ambigua. Hai frequentato e lavorato spesso al Sud, però non hai risparmiato parole anche molto critiche nei confronti di questi luoghi così “esotici”…

Flavio Favelli/ Cara Valentina, ti rispondo da Palermo, sono i giorni di Manifesta. Mi sento molto legato all’isola e a questa città, dove ho fatto diversi progetti e preso soggetti per molte opere. Ho scelto di fare un intervento con due artisti, Giuseppe Buzzotta e Toni Romanelli, siamo tre differenti generazioni: abbiamo preso un negozio sfitto in Via Roma con scritto Fenomeno sulla vetrata. È un negozio moderno, doveva forse vendere abbigliamento per uomini attuali ed esigenti, ma di una eleganza troppo globale per essere vera, un negozio lontano da quello che un visitatore si aspetta da Palermo coi suoi palazzi nobiliari fra il dimesso e lo sbragato, così maledettamente belli quanto inutili. Direi proprio questo: a Palermo e in Sicilia c’è una bellezza eccessiva, stordente, inutile, come il dolce della Martorana che è più dolce dello zucchero. Abbiamo scelto un posto capace di rispecchiare il gusto e l’immaginario della città degli ultimi quarant’anni, lontani da chiese ricamate ed edifici antichi. Qui si spinge di più che da altre parti sull’apparire. Mi piacciono tutte queste sovrapposizioni, un infinito collage meridionale, dove tutto in qualche modo rinasce con grandi fratture e cicatrici. È il tema delle rovine, comuni a tutto il Sud Italiano, che al Nord non ci possiamo permettere. Posso dire che amo il Meridione Italiano perché è rovinato; rovine che insieme alla vita quotidiana di un paese comunque del primo mondo, generano riflessioni, nuove immagini, e così sto dicendo che il Sud è fonte per me di ispirazione per l’arte. Ma ciò è fertile anche perché si collega alla mia vita, a certi ricordi di luoghi e oggetti. Ho visitato con mia madre il Sud quando ero bambino e questo ritrovare dopo tanti anni certe vedute come cartoline psicologiche infonde in me una certa eccitazione mentale, che proviene da un sentire ambiguo fra piacere, passione e malinconia, e concorre a generare delle figure nuove che vengono da immagini (ricordi) scomposte, riassemblate e quindi anche distrutte. Il Sud è poetico pure perché è povero e la povertà mantiene vivo un certo mondo poetico e letterario. Può sembrare un atteggiamento esotico, come dici, uno sguardo superficiale e pittoresco, ma è anche il terreno su cui si muove l’artista, che non è interessato all’essere politicamente corretto.

VT/ Gli oggetti che di frequente utilizzi per le tue opere hanno una valenza simbolica per te, quasi simbiotica, perché rappresentano o evocano una storia, principalmente la tua; lo stesso vale per le immagini. Gli anni Ottanta in particolare hanno avuto una grande influenza sulla tua vita. Invece, dei Duemila – di quest’ultimo ventennio – quali oggetti, immagini o icone porteresti nel tuo lavoro?

FF/ Gli anni Settanta e Ottanta sono stati ambigui e demoniaci, per me, per la mia famiglia e per l’Italia che era già un paese globale prima della globalizzazione. Ecco perché sono per me cruciali, perché le cose drammatiche che vivevo in famiglia erano le stesse, con gli stessi meccanismi, che viveva il paese. Negli anni Duemila mi manca, e meno male, quel rapporto originario con la famiglia e quindi tutto è più tranquillo; sono stato sicuramente meglio, ma è tutto meno interessante. Diciamo che cerco di portare sempre le immagini e le questioni psicologiche di quel mio periodo nei tempi successivi. Quasi funzionassi come uno stato autarchico con i propri miti di fondazione, che sono tali perché sono passati e irraggiungibili. Forse ho un problema col vivere il presente, che uso giusto per sviluppare diversi punti di vista sul mio passato. Comunque, per risponderti direi – non ho dubbi – la tragica e folle epopea dell’11 Settembre 2001 fino a Ground Zero con le due vasche del 2011 e il museo sotto nel 2014. Il Memoriale di Ground Zero è un intreccio sinistro nato dal tentativo di rappresentare un evento impensabile che rimarrà per sempre angosciante. L’inadatto immaginario statunitense ha creato una specie di terrazza-belvedere interrata che ammira le fondazioni ancora scassate delle Torri Gemelle dallo stupro dei terroristi. Ho già scritto della mia passione per gli aerei e sull’11 Settembre e questo enorme monumento senza monumento ma con cavità e catacombe è forse l’opera più significativa della nostra cara storia.

VT/ Appari come una persona introversa, solitaria, eppure le tue opere sono una sorta di libro aperto. Letteralmente, Flavio, hai aperto più volte al pubblico persino le porte di quella che è stata per molto tempo casa tua e della tua famiglia, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Visitandola mi sei sembrato un ottimo padrone di casa nel raccontare al pubblico i vari wall painting che hai poi realizzato nelle stanze dell’abitazione.

FF/ Credo che la condizione dell’artista sia drammaticamente ambigua: da una parte ha a che fare con le sue immagini e i suoi problemi diciamo visivi, dall’altra deve far uscire fuori tutto ciò
e deve cercare comprensione. Comprensione che non sarà mai esaudita, pena la perdita del suo demone. Solo parlando col pubblico, che è una presenza retorica, si riesce a comprendere meglio se stessi e soprattutto le opere; solo parlando a braccio dopo una decina di volte di Via Guerrazzi 21, posso capire meglio cosa sto facendo. Il pubblico è una comparsa, è come quando la mamma stava a sentire recitare la tua poesia, non faceva nulla, non doveva fare nulla, era ed è solo una presenza passiva, come è venuto se ne va. Parlare con le persone, poi, è importante: parlando dell’opera si comprende l’enfasi, lo slancio o il distacco che si ha col pubblico; si comprende, definitivamente, il rapporto che si ha con se stessi.

VT/ A Bologna hai realizzato parecchi progetti, fino a quello recentissimo sviluppato a Bazzano.

FF/ Ho sempre avuto e ho tutt’ora tanti progetti per Bologna perché è la città dove abito e devo dire che non è per nulla semplice realizzarli. Ho partecipato al bando Italian Council col progetto Serie Imperiale, due francobolli che posseggo col volto di Vittorio Emanuele III, desueti e scomodi per via di sovrastampe di annessioni (Zara per l’occupazione tedesca e Repubblica Sociale Italiana) che ho ingrandito e poi dipinto su due muri interni: nella stanza riunioni della Casa del Popolo e in un ex supermercato MiniCoop. Queste due sur-immagini appartengono al conflitto: sono sgarbi, sfregi, atti di sabotaggio e di censura-offesa, scritte violente di invasione, annessione e appropriazione di territori e di immagini. Una volta eseguite e presentate saranno poi strappate con un procedimento artigianale svolto da professionisti e montate su tela a comporre l’opera-dittico Serie Imperiale. I due muri privati delle pitture saranno parte costituente dell’opera, perché anziché rasarli e tamponarli come di solito avviene, saranno basi per un intervento permanente. L’otturazione diventerà essa stessa opera d’arte; il timbro Zara e Repubblica Sociale Italiana non sono altro che una specie di damnatio memoriae moderna, così come la tamponatura dei due muri che lascerà un anti-dipinto su intonaco come fosse una cancellatura-abrasione controllata e pensata.

VT/ Cosa pensi della situazione artistica contemporanea a Bologna e in Italia in generale?

FF/ Dalla fine degli anni Novanta lavoro come artista e ho conosciuto i piani alti della città che ama un po’ l’arte direi per svago e per collezionismo, che sono due cose importanti, ma
non sono un vero interesse per l’arte. Ci sono grandi fortune e grandi capitali, musei privati e fondazioni, ma c’è veramente poco di interessante. Se a quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica, per la prima volta questo paese (per tutto il mondo il paese dell’arte) con l’Italian Council, dà la possibilità agli artisti del suo tempo di esprimersi, si comprende meglio la situazione.

VT/ Un tuo prossimo progetto?

FF/ Gli Angeli degli Eroi, la lista dei militari italiani morti dopo il 1945 in missioni di pace. Il progetto viene da una foto della mia famiglia: quella di mio nonno materno Carlo (che tornò dalla Campagna di Russia) in divisa, mentre passeggia per Piazza Maggiore a Bologna. Riconosco in lui un modello estetico molto forte che è riassunto in quella foto in uniforme. “Caro Luca grazie! Gli angeli degli eroi ti sorridono mentre ti fanno la scorta d’onore fino alla luce di Dio in paradiso!!! Viva l’Italia”. Quando ho visto questa scritta fatta su un cartone probabilmente dai parenti di Luca Sanna, soldato morto in Afghanistan nel gennaio 2011, durante il suo funerale a Roma, ho provato lo stesso turbamento di quando visitai anni fa il Sacrario di Redipuglia. Immagini estranee che proprio per il fatto che sono lontane, perché le teniamo lontane, si scoprono a volte drammaticamente vicine. Il progetto consiste in un grande wall painting su un muro pubblico con la lista dei militari caduti.

SERIE IMPERIALE, ZARA, 2018. Casa del Popolo, Bazzano (Bo). Foto © Dario Lasagni. Courtesy dell’artista.

© 2018 BOX ART & CO.

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