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IL FASCINO DEL SUBLIME

Giovanni Gastel

– Sabino Maria Frassà

Giovanni Gastel, classe 1955, è tra i fotografi italiani più noti e apprezzati a livello internazionale. Nipote di Luchino Visconti, si avvicina alla foto- grafia per caso e per necessità, dovendo mantenersi dopo aver lasciato rocambolescamente la famiglia paterna. L’inizio come fotografo professionista avviene con le case d’asta, ma la sua carriera subisce la vera svolta con la moda e i primi still life pubblicati su “Annabella” nel 1981. Da allora non si è più fermato e ha ritratto i personaggi più illustri degli ultimi quarant’anni secondo una sua cifra che lo rende riconoscibile, ma che è anche cambiata nel tempo. La sua evoluzione artistica è al centro di questa intervista realizzata – in amicizia e in modo informale – in occasione della mostra “The people i like” che il MAXXI di Roma gli dedica e che sarà aperta fino al 22 novembre.

 

Sabino Maria Frassà/ Giovanni Gastel artista: non è facile per un famoso fotografo di moda smarcarsi da tale mondo ed essere riconosciuto e acclamato come artista. Eppure tu ci sei riuscito, complice forse anche la ventennale collaborazione con Germano Celant. Quali sono i passaggi più significativi di questa collaborazione?

Giovanni Gastel/ Con la morte improvvisa di Germano mi è venuta a mancare una guida, oltre che un amico. Non è stato infatti solo il curatore di tanti progetti, ma colui che mi ha con- dotto per tanti anni in una crescita personale oltre che professionale. La prima mostra in Triennale nel 1997 è stata per me la svolta: lavoravo da oltre vent’anni come fotografo di moda, ma Celant vide in me qualcosa di più, apprezzando l’artista che riuscivo ad essere al di là della committenza. Mi definiva infatti come un fotografo “diarroico” e “incompreso”. Lui seppe andare oltre alle apparenze anche del mio lavoro, cogliendo quanto di indipendente e artistico io mettessi in tutti gli scatti, anche in quelli “commissionati”. Se ci pensiamo, tantissima arte del rinascimento era “commissionata” e la bravura dell’artista consiste- va anche nel riuscire a esprimere il proprio genio in un’opera realizzata per denaro. Detto ciò, Germano mi spinse ad andare anche oltre il mio modo di essere con la mostra “Maschere e Spettri” del 2007. Fu una mostra non capita dalla maggior parte del pubblico, perché fu l’unica occasione in cui indagai ciò che da sempre tengo lontano da me, ovvero il buio della violenza e della morte.

SMF/ Buio, luce, contrasti. In fondo sono i tre elementi che nel tempo hanno fatto di Gastel un’icona globalmente riconosciuta della fotografia contemporanea.

GG/ Lo staccarsi dal buio senz’altro. In fondo tutta la mia ricerca estetica è una fuga dal buio verso la luce. Cerco di tenere in secondo piano il dolore, lo rifiuto e da sempre mi rifugio nel sublime attraverso il bello e la mia arte. Come dice l’etimologia stessa della parola “sublime” c’è una tensione drammatica costante verso qualcosa di alto a cui si tende. Nel tempo sono cambiato, anche perché la tecnica a disposizione è cambiata e con essa l’estetica stessa, ma i contorni netti, la luce e il distacco dallo sfondo e dal “buio” sono rimasti. Più che dalla fotografia e dallo studio dell’immagine la mia evoluzione e ispirazione ancora oggi proviene dalla pittura e dall’arte figurativa: se le fotografie degli anni ’80 erano ispirate ai chiaroscuri di Caravaggio, oggi continuo ad essere stregato dalla luce diffusa del Mantegna.

SMF/ Ti sei distinto per la padronanza tanto del bianco-nero quanto dei colori, del digitale ma anche dell’analogico, da cui sei partito. Che rapporto hai con la tecnica della fotografia?

GG/ Ogni tecnica ha una propria estetica e proprie potenzialità, se penso alle polaroid di oggi, a causa dei necessari limiti dovuti all’inquinamento, non sono espressive come quelle degli anni ’80 e non ha più senso per me utilizzarle. Bisogna ricordarsi che la tecnica non è il fine della fotografia, ma il tramite per raccontare come si vede la realtà: io ogni scatto lo “sento”, decido a priori nella mia testa se sarà in bianco e nero o a colori. Devo però essere onesto, questo approccio istintivo è il risultato di anni di lavoro e del fatto che sono cresciuto con la fotografia analogica, non scatto mai tanto né eccedo nella post-produzione. Del resto sono convinto che uno scatto riesca non in base alla tecnica impiegata ma se scatta l’empatia, la fascinazione tra fotografo e soggetto ritratto, sia esso una persona, un oggetto, ma anche il mio cane (il cui ritratto è in mostra – ndr). Perciò non penso mai a cosa vorrebbe vedere lo spettatore, ma cerco di catturare chi ritraggo, di coglierne e rappresentarne l’essenza. Ogni tecnica è così, semplicemente, solo lo strumento per pro- vare quella tensione al sublime che è la ragione per cui ancora oggi, ogni giorno, sono spinto a fare nuovi “scatti”.

BEBE VIO, 2017. Courtesy Giovanni Gastel.

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