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TEMPO, ERRORE, CASUALITÀ

Giulio Bensasson

– Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Giulio, nella mostra LOSING CONTROL in corso sino alla fine di luglio alla Fondazione Pastificio Cerere di Roma analizzi, in maniera forte, il tema della “perdita del controllo” e di ciò che ne deriva. Me ne parli?

Giulio Bensasson/ Più che di analisi parlerei di osservazione. Mi sono dovuto confrontare con due spazi completamente opposti: un locale sotterraneo, che porta sui muri i segni dell’abbandono e dello scorrere del tempo, e un white cube pulito e asettico. Il progetto espositivo, pensato con la curatrice Francesca Ceccherini, è un percorso fatto di contrapposizioni e illusioni nato appunto dall’osservazione del contesto di intervento.
Ho deciso quindi di amplificare i contrasti propri di questi ambienti, cercando di ribaltare contesto e contenuto: nel sotterraneo spazio Molini ho eretto delle strutture che mitizzano (fino al grottesco) la pulizia e il controllo che esercitiamo sulle superfici del nostro quotidiano; mentre nel cubo bianco della Fondazione è esposto un lavoro che celebra la mancanza del controllo sull’opera d’arte. Ho immaginato l’atto del pulire e del detergere come rituale di eliminazione dell’errore, del pensiero disturbante, del memento mori. Un ridicolo tentativo di recuperare qualcosa che costantemente sfugge, o di riappropriarsi di ciò che non si è mai avuto. Mentre dall’altra parte volevo rendere evidente quanto lo scorrere del tempo, con i suoi rovinosi effetti sull’immagine, potesse essere anche creatore di bellezza.

LB/ Come sei riuscito a capire quali sarebbero stati gli strumenti giusti per realizzare e rendere fruibile globalmente un concetto così complesso, quasi ossimorico, in fondo se sleghiamo le due parole, “perdita” e “controllo” possono connotarsi l’una come l’opposto dell’altra.

GB/ È un nodo molto intricato della nostra vita, e parlarne in termini assoluti sarebbe stato impossibile, ho tentato di focalizzare la ricerca su elementi concreti che potessero aiutarmi a palesare una serie di contraddizioni. Perdere il controllo è un’azione che può sembrare passiva: non riuscire a controllare o a trattenere e quindi uscire da una regola prestabilita. Parlare di perdita però implica un possesso, il che, in questo caso, risulta ai miei occhi molto comico: viviamo nell’illusione – più o meno consapevole – di poter controllare completamente il flusso di eventi e fenomeni in cui ci muoviamo, di avere il controllo, pertanto ci risulta difficile – se non impossibile – accettare gli aspetti più incontrollabili e inevitabili del nostro esistere. In tal senso il dialogo con lo spazio si è rivelato fondamentale, un ambiente in cui il controllo non è più esercitato ha suggerito
un intervento di controllo (ridicolmente ossessivo) da parte mia; d’altra parte le diapositive di Non so dove, non so quando, esposte al piano di sopra, suggeriscono un’intenzionale perdita di controllo, che capovolge la questione mostrandone altri aspetti. Nel complesso direi quindi che gli strumenti per formalizzare l’idea erano già in seno allo spazio e ai miei lavori precedenti.

LB/ Tornando alla prima domanda, la perdita del controllo di sé – o di quello che ci circonda – credo sia una costante, ormai, della contemporaneità in cui il “lasciarsi andare” non sembra essere più giustificabile. A cosa può condurre, secondo te, la pressione che esercitiamo spesso su noi stessi?

GB/ La struttura della nostra vita non ammette l’errore, che diventa quindi sinonimo di fallimento, e ci costringe in una costante e struggente condizione di desiderio della perfezione. L’errore – figlio della casualità e dell’imprevedibilità – è una testimonianza di perdita del controllo, ci ricorda continuamente la pochezza delle nostre capacità e delle griglie in cui inquadriamo il reale. Temere l’imperfezione credo porti alla costruzione di nuovi ostacoli entro cui confiniamo le nostre potenzialità. Bisognerebbe invece cominciare a concepire lo sbaglio, la “deviazione dalla norma”, la perdita di controllo come parte fondamentale della ricerca, perché ci avvicini alla consapevolezza dei nostri limiti, rendendoci in grado di superarli.

LB/ In chiusura mi piacerebbe che tu mi raccontassi un po’ della ricerca che porti avanti, in particolare cosa puoi dirmi del lavoro Temo che mi sfugga qualcosa? Mi pare, in fondo, avvicinarsi molto al tema della mostra di Roma…

GB/ Nel mio lavoro c’è spesso di fondo la decomposizione della materia, volontaria o casuale, ricercata o combattuta, che necessita ovviamente del tempo per rendersi evidente. Trovo che la decomposizione sia la forma di astrazione più pura, e quindi il mio gesto autoriale molte volte si deve limitare all’attesa – come nel caso di Non so dove, non so quando esposto in questa mostra – o tutt’al più nel porre l’immagine, l’oggetto o la materia nella condizione di esprimersi attraverso il suo disfacimento. In Temo che mi sfugga qualcosa ho posato dei fiori recisi su fogli di carta di cotone, li ho poi inseriti in delle buste per la conservazione dei cibi e messi sottovuoto. Nel tempo, il naturale processo di deperimento del fiore si manifesta sulla carta con i suoi fluidi colorati, lasciando come risultato finale dell’opera un sudario, macchia pittorica che testimonia un passaggio, perché è importante che rimanga qualcosa. Effettivamente i temi trattati in LOSING CONTROL ricorrono spesso in tutta la mia pratica, il problema del controllo sull’opera e sulla tecnica, o la sua negazione. Il memento mori – come pretesto per rendere evidente la nostra grottesca arroganza nei confronti della vita – il tempo, il caso e l’errore sono al centro della mostra come di tutto il mio lavoro.

Dall’alto: Visori per diapositive utilizzati per NON SO DOVE, NON SO QUANDO. Foto © Carlo Romano. Courtesy Fondazione Pastificio Cerere. TEMO CHE MI SFUGGA QUALCOSA, 2017. Fiori e carta di cotone sottovuoto. Courtesy dell’artista.

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