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EPIFANIE DEL QUOTIDIANO

Giulio Catelli

– Gregorio Raspa

Gregorio Raspa/ Osservando il tuo lavoro mi viene da pensare ad un certo “languore esistenziale”, tipico di molta pittura della tradizione italiana ed europea della prima metà del secolo scorso. In esso ritrovo i segni di una solida consapevolezza storica, maturata – immagino – assimilando la lezione di maestri come De Pisis, Morandi, Pirandello o Vuillard – solo per citarne alcuni a te idealmente vicini. A tal proposito, quali sono i riferimenti che hanno realmente influito sulla tua formazione?

Giulio Catelli/ La tendenza al sentimento, e una certa propensione a rimestare ricordi e situazioni, mi portano a quel “languore esistenziale” di cui parli, che poi confluisce nel mio lavoro. Se questa disposizione ombrosa arriva al punto di frenare slanci ed entusiasmi, la mia “fiaccherella malinconica” ha almeno la virtù di una tensione antiretorica. I primi riferimenti artistici sono stati i miei familiari: i nonni pittori da entrambe le parti, mio padre scultore e mia madre disegnatrice e illustratrice. L’amore più antico è invece Morandi. Un amore precoce, divenuto un po’ tossico nella prima giovinezza, che ora ha ripreso una veste meno esclusiva e prescrittiva. Ai nomi che hai fatto, aggiungerei quelli di Ruggero Savinio e Alberto Gianquinto. Quest’ultimo, a suo tempo, mi rimproverò “d’essermi bevuto un po’ troppe bottiglie del bolognese”.

GR/ La tua ricerca è intimamente legata ai valori e agli strumenti “tradizionali” della pittura. Come vivi il rapporto con altri media e discipline?

GC/ Quando so di amici pittori che si misurano con altri media sento un apprezzabile fremito dei baffi. Ho persino delle riserve per quella che viene definita pittura “espansa” che invece, nella maggioranza dei casi, risulta “ridotta”, immiserita, posta sul piano di una simulazione scenografica. Quanto ai valori tradizionali della pittura, non si tratta in realtà di un insieme compatto e rassicurante. Penso che la tradizione porti con sé i segni di tutte le relazioni e le contraddizioni generate nel continuo tentativo di rinnovare le immagini fiaccate dalle consuetudini. Ne sono testimonianza le diramazioni di gusto da un secolo a un altro, da paese a paese e, non da ultimo, i considerevoli scarti stilistici ed espressivi interni all’opera di molti pittori che amo. Per fare degli esempi notevoli: Constable, Renoir, Hockney mostrano nel loro lavoro un serrato sforzo di articolare poetiche, riesaminare nel tempo gerarchie e riferimenti. Questo svolgimento, aperto e inaspettato, di quella che chiamiamo “tradizione” (che è cosa molto diversa dai parametri contemporanei di “riconoscibilità stilistica”, di “originalità” o di “cifra”) stimola lo sguardo e guida la mia azione nel presente.

GR/ Il tuo lavoro spazia oggi nel territorio eroico dei soggetti “semplici”. La tua pittura si nutre di ciò che spesso è trascurato dai più, valorizzando immagini e visioni tratte dalla quotidianità. Come è nata l’idea di porre al centro della tua poetica l’ordinario?

GC/ Non saprei se questa scelta sia eroica. Ho una preferenza per le immagini semplici. La pittura, come anche la poesia, si può fare con poco: il paesaggio dalla finestra dello studio, un ragazzo intravisto nella metro, un pic-nic. I miei non sono dipinti realizzati per restituire solo un soggetto (che pure ha la sua importanza), ma per rendere un modo di sentire e di vedere il reale.

GR/ Nel tuo caso, la scelta del soggetto sembra suggerire l’esistenza di un nesso di causalità diretto tra i fatti della vita e i motivi dell’arte. Quanto conta l’esperienza autobiografica nell’economia complessiva della tua ricerca pittorica?

GC/ I miei soggetti nascono da piccole epifanie del quotidiano, oppure rimandano a spazi e situazioni rivisitati nella memoria. Ne risulta una dimensione autobiografica, suggerita o più dichiarata, come nel caso recente della piccola serie dei doppi ritratti col mio compagno Andrea. Coinvolgendo nel lavoro i fatti della vita, metto alla prova generi, iconografie, stilemi. Rifletto a mio modo su un’attualità della pittura. Il tempo privato e “istantaneo”, quindi attuale e inattuale insieme, scompiglia e rimescola le categorie, le gerarchie espressive legate ai soggetti. Agita i residui simbolici, le concezioni idealistiche, al contempo comode e soffocanti.

GR/ In una poetica come la tua, elaborata sul dato reale e sul vissuto, che ruolo hanno il sogno, il fantastico, la suggestione letteraria?

GC/ Nella citazione e nel rinvio a riferimenti letterari avverto il rischio del compiacimento come intralcio al libero sentire. Stabilire riferimenti e modelli potrebbe portare il peso di un moralismo, e di un canone, da cui cerco invece di sfuggire. Certo, è inevitabile che altre suggestioni collaborino sottotraccia nell’economia generale del lavoro, ma se infine queste emergono, rimangono sullo sfondo, non sono premeditate. Più che il fantastico, è la fantasticheria ad affascinarmi: lo sguardo trasognato, l’affidarsi all’immaginazione, alle malìe delle associazioni visive. Questo, tanto nel compiersi del quadro, quanto nel godimento della pittura in genere.

GR/ Mi interessa molto il tuo modo di osservare e ritrarre le azioni e i comportamenti umani. Alcuni dipinti da te realizzati negli ultimi anni – come, ad esempio, Dopo Pranzo (2018), Ragazzi che vanno a scuola (2018), In Giardino (2019) o La Partita (2019) – hanno in comune un’identità lirica e furtiva. Mi racconti di queste opere e della loro genesi, apparentemente estemporanea?

GC/ I dipinti con i ragazzi impegnati nelle partitelle di calcio, o negli spostamenti tra casa e scuola, provengono dalle mie esperienze di supplente alle medie. In questi quadri nati da un impulso di simpatia e, se vuoi, di tenerezza, c’è la volontà di soffermarsi sul tema dell’adolescenza. Negli altri quadri che citavi, invece, dipingo le vacanze, la libertà dagli impegni, il rapporto con il paesaggio. Vi figurano ragazzi immersi nella natura, “arcadi debosciati” in atmosfere campestri.

GR/ Una parte importante della tua produzione antecedente al 2018 è dedicata alla pittura paesaggistica. Con questi lavori hai pienamente sviluppato la tua azione linguistica, conducendola verso una piena maturità. Cosa resta, oggi, di quell’esperienza? Consideri possibile – o necessario – un suo ulteriore approfondimento in futuro?

GC/ Il paesaggio è rimasto, anche a guidare, credo, una dinamica complessiva fra gli elementi e gli spazi dell’immagine. Ho lavorato en plein air proprio perché sentivo di voler sviluppare un linguaggio, estenderlo, rodare una consapevolezza dei mezzi espressivi. A dirla tutta, non sono poi molto cambiate le motivazioni di base del mio lavoro. La pittura è un banco di prova e, nonostante mi senta un poco scaltrito, oggi avverto ancora più forte di dover precisare, mettere a fuoco, di studiare. Per questo il paesaggio occupa ancora un significato di intenso contatto con la realtà. Il bisogno di una perspicuità dello sguardo, che assume il senso più ampio di una fedeltà a se stessi.

Dall’alto: IL GIARDINO DI LUDOVICO, 2018. Olio su tela, 160×130 cm. RAGAZZO CON LO ZAINO, 2017. Olio su tela su tavola, 30×24 cm. LE NÉCESSAIRE, 2018. Olio su carta, 35×25 cm. Per tutte courtesy dell’artista.

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