INTERVIEWS

CURARE L’ARTE

Agnes Kohlmeyer                                                                   

– Valentina Tebala

 

Agnes Kohlmeyer''

Agnes Kohlmeyer è curatrice e critica di livello internazionale; il suo curriculum vanta la collaborazione con il grande Harald Szeemann alla curatela della 48. Biennale di Venezia del 1999.
Ma di lei colpisce soprattutto la passione viscerale con la quale parla del suo lavoro, che è poi la sua vita, ovvero l’Arte con la “A maiuscola”, quella profonda e necessaria.
Nel marasma gretto ed isterico dei professionisti «di tutto e niente» che oggi affollano il mondo artistico contemporaneo, la sua opinione è ristabilizzante e incoraggiante al cospetto degli artisti. E dei futuri veri militanti dell’Arte.

Valentina Tebala/ Tenendo in considerazione la tua docenza in un prestigioso ateneo come lo IUAV di Venezia, come reputi il funzionamento dell’odierno sistema universitario ed accademico italiano nella formazione professionale dei “mestieri dell’arte”? E qual è, a tuo parere, il suo ruolo nell’accompagnamento dei giovani artisti – così come delle varie figure che ruotano intorno a questo mondo (critici, curatori, ecc.) – nel contesto istituzionale dell’arte contemporanea?

Agnes Kohlmeyer/ Credo di non essere in grado di giudicare la situazione in generale; bisognerebbe considerare i casi nello specifico. Ma so di certo che la nostra Facoltà di Design e Arti fondatasi nel 2001 all’interno dello IUAV veneziano, era un progetto del tutto particolare e unico in Italia: trovandosi a Venezia, in stretta relazione con la Biennale, la scuola esercitava fascino e attrazione su qualunque artista, anche il più grande, che passando da questa città sognava – e sogna ancora – di viverla almeno per un breve periodo, di conoscerla più da vicino.
Allora era davvero possibile invitare a tenere un corso allo IUAV artisti visivi, scenografi, registi teatrali, fotografi, filosofi, scrittori, curatori e designer tra i più bravi e famosi del mondo: poi per parecchi di loro diventava un insegnamento duraturo, di una lunga serie di anni. Con questo accenno alla mia scuola, voglio dire che un’ottima formazione con dei bravi insegnanti senza dubbio riesce a formare buoni artisti e professionisti nel campo delle arti. Certamente, un bravo artista può anche non aver frequentato nessuna scuola, o una scuola puramente pratica, e farsi notare ed amare lo stesso… ma, personalmente, mi sembra di avvertire sempre più la differenza fra un artista con una certa educazione – anche intellettuale – e un artista privo conoscenze del genere.

VT/ Come curatrice, invece, cosa pensi riguardo alla nuova “moda” del mestiere del cool curator? Parallelamente, mi interesserebbe avviare con te una riflessione sull’attuale e massiccio proliferare dei più disparati “corsi per curatori” e workshop mirati, avviati da un numero sempre maggiore di istituzioni o gallerie d’arte.

AK/ Tutto quello che si potrebbe definire una “moda” secondo me ha poco a che fare con la serietà che ci vuole per ogni mestiere. È invece necessaria un’autentica convinzione, dedizione, addirittura una vocazione; e si capirà comunque ben presto che ogni mestiere, anche quello che inizialmente può sembrare più hip o magari easy, nella realtà non lo sarà affatto. Ma soprattutto, cosa significa cool curator? Quel modo di curare senza dietro una grande passione per l’arte e per gli artisti? Significa magari la voglia del curatore in questione di faticare poco delegando ad altri collaboratori buona parte del lavoro, prendendosi poi la visibilità del discorso inaugurale e gli applausi per una mostra presentatasi più o meno discretamente?
Per come io intendo la mia professione, credo che il mestiere del curatore debba coinvolgere totalmente, e che non sia MAI una passeggiata; piuttosto, una grande fatica e una grande sfida che porterà – così almeno si spera sempre – alla soddisfazione di un lavoro valido, fatto assieme agli artisti e alla squadra dei collaboratori. I sempre più numerosi corsi per curatori di per sé non ritengo siano un problema. L’importante è che siano eseguiti in maniera seria, solida, ricca e varia, e soprattutto non illudano che bastino poche settimane per diventare un vero curatore: i giovani futuri curatori dovrebbero riconoscere che si ha tanta e dura strada da fare, molti studi ed esperienze da raccogliere.
È necessario un buon senso critico e autocritico. Studiare, provare, usare tanta prudenza e sensibilità – questi sono gli strumenti più importanti; e anche buone dosi di modestia e gentilezza non guastano.

VT/ Dunque, qual è la tua personale idea o filosofia curatoriale? Chi dovrebbe essere il curatore per te.

AK/ In parte credo di aver già risposto a questa domanda: più precisamente direi che quello del curatore è un mestiere estremamente complesso che sicuramente parte in primis dall’amore e dall’interesse per l’arte che si vuole «curare». Ci vuole una conoscenza approfondita, uno spirito aperto, curioso, magari pure giocoso e fantasioso. A mio parere un bravo curatore non deve conoscere soltanto l’arte, ma anche la letteratura, la filosofia, la storia o la musica; e deve sempre essere in grado di acquisire la storia di un luogo o di uno spazio, che sarà il contenitore o il contenuto della sua mostra. Prima ancora, però, viene – almeno per quanto riguarda le mostre di arte contemporanea – il rapporto con gli artisti.
La parte del lavoro a stretto contatto con l’artista per me è sempre stata quella più importante, la più delicata e difficile, ma anche la più bella e gratificante. Ed è un lavoro che inizia molto prima di una mostra: è un rapporto che spesso dura per sempre, praticamente un dialogo continuo.

VT/ Per concludere, non vorremmo privare i lettori del piacere di conoscere qualche dettaglio sulla tua importante esperienza come collaboratrice di Harald Szeemann per la curatela della 48. Biennale di Venezia, nel 1999, dal titolo d’APERTutto.

AK/ Sì, Szeemann è stato un mio grande “maestro”. Con lui ebbi la fortuna di poter curare d’APERTutto, la prima edizione della Biennale Arte che si estese – proprio per volontà del Direttore Szeemann – sull’enorme terreno dell’Arsenale, oltre i soliti Giardini. A lui devo la piena coscienza della gioia nel nostro mestiere, una passione senza limiti, senza la preoccupazione che questa potesse diminuire un giorno, magari a causa di stanchezza, vecchiaia o routine. È questa la cosa più importante che ho acquisito durante la nostra affascinante ed importante collaborazione durata più di un anno. Lui me lo dimostrava tutti i giorni e nel migliore dei modi: potevano esserci nell’aria i più grandi problemi, anche apparentemente irrisolvibili, tuttavia bastava davvero che sopraggiungesse un artista appena arrivato da lontano, desideroso di esplorare gli spazi veneziani, che Harald Szeemann immediatamente accantonava tutti i problemi, e gioioso invitava me e l’artista a dedicarci prima di tutto alla passeggiata esplorativa e creativa negli spazi, al sogno, alle idee e alla progettazione – cioè all’arte.

VT/ Giuro, ultimissima curiosità: cosa emoziona Agnes Kohlmeyer?

AK/ La luce e i cieli, l’acqua e perfino le pozzanghere dopo la pioggia, gli innumerevoli riflessi sopra le superfici, l’arte e la bellezza delle chiese, dei conventi e dell’architettura di Venezia come di molti luoghi in Italia e nel mondo. Ma anche la gentilezza delle persone e degli animali, la natura, il silenzio, i miei viaggi, le mie passeggiate «della consapevolezza», il mio quotidiano wandering- wondering, certa letteratura, certa musica, il cinema, tutta l’arte buona e seria, profonda e necessaria, anche quella faticata e sofferta. Potrei davvero dire che mi emozioni la vita, in tutte le sue sfumature.

48° Biennale di Venezia, Arsenale - Installazione di Kcho - Foto by Luca Campigotto

Dall’alto: Un ritratto di Agnes Kohlmeyer. Un’installazione di Kcho alla 48. Biennale di Venezia nel 1999. Foto Luca Campigotto.

(alle pagine 4-5 del n. 13 di SMALL ZINE)

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