SMALL TALK _ SMALL ZINE N.2

UN MURO DA DIPINGERE

Graziano Russo                                                                                          – Carla Sollazzo

 
 
Carla Sollazzo/ Mi parli del tuo lavoro? Qual è stato il momento in cui ti sei detto “voglio fare questo nella vita”?
 
Graziano Russo/ Ho iniziato facendo graffiti, nel 1994, a Locri, dove sono nato.
Un territorio che ha formato la mia sensibilità in maniera indelebile. I sequestri in Aspromonte, le faide tra le famiglie di ndrangheta, e una società con la cultura ferma alla Magna Grecia. In Accademia ho iniziato a conoscere i nuovi linguaggi, come il video e le installazioni. Ed è stato un modo in più per “allargare il muro su cui dipingere”. Nonostante abbia smesso di fare graffiti da quando sono a Roma, ho ancora quella sensazione di fare qualcosa di illegale, con il rischio di esser preso a calci. E nell’arte sono bravissimi a prenderti a calci. In questo periodo sto lavorando sul progetto BUNKER VISIT, una serie di installazioni e sculture che analizzano il concetto di latitanza. Non so quando ho detto “voglio fare questo nella vita”, di certo mi domando ancora se “posso fare questo nella vita”.
CS/ Hai partecipato a diversi concorsi. Qual è quello a cui sei più legato e perché?
GR/ Ho partecipato per due anni al Premio Celeste, esponendo a Berlino e andando due volte in catalogo. Ma vincere i premi è un’altra cosa. È stata una bella esperienza, ma quello che mi ha dato più soddisfazione, è Festarte, perché ho realizzato quel video – dove chiudo i buchi di un cartello stradale crivellato da colpi di pistola – partendo dal loro tema, violenza invisibile, ed è stata l’occasione per tornare in Calabria e fare un atto eroico secondo me, pieno di sentimento.
CS/ 114 barchette di Corano sul Mar Ionio. Cosa rappresenta per te?
GR/  Le pagine del Corano, così come qualunque altro testo sacro, hanno una forza di sopravvivenza invidiabile. La religione in questo caso è, come afferma Umberto Eco, “la cocaina dei popoli”. Trovo che alcuni fenomeni vengano conosciuti solo per la loro drammatica esperienza, o con un approccio di basso profilo politico. Degli sbarchi clandestini a me interessava  l’aspetto sociologico, la forma di colonizzazione a cui stiamo lentamente assistendo.
È un’installazione che è nata dopo aver partecipato al workshop di Shirin Neshat a Salisburgo, con la quale ho potuto approfondire questo argomento.
 
 

MENTRE IL PAESAGGIO, DICONO, È COSÌ BELLO. 2010. Still da video. Courtesy dell’artista.

 

                                                                                  © 2011/2012 BOX ART & CO.
 
 

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