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CONTEMPORANEO E RESTAURO

Con Antonio Rava ed Eugénie Knight

Loredana Barillaro

Chi decide la durata di un’opera d’arte? Il suo artefice, chi l’ha creata o chi, invece, talora la “riceve”? Se progettare un restauro ci sembra scontato per le opere d’arte dei secoli passati, diverso è il caso quando si tratta di arte contemporanea, quella di oggi, quella recentissima, sperimentale e per questo spesso in balìa del tempo e dei suoi effetti. Come bisogna agire dunque? Quand’è che appare necessario un intervento di restauro? E se la vita di certe opere si esaurisse con il loro normale “ciclo vitale” spesso condizionato dall’impiego di materiali facilmente deperibili? E se l’opera fosse la sua “documentazione”? È possibile stabilire quando e se ne valga la pena…?

Sono stati da più punti sollevati dubbi sulla recente pratica di restauro dell’arte contemporanea, per la presunta volontà di mantenere una condizione di “evergreen” per opere a cui non si concede un invecchiamento coerente col passaggio del tempo, nel malinteso intento di preservare il messaggio cristallizzato in una condizione di perfezione formale antistorica, in aperto contrasto con la teoria del restauro come si è sviluppata attraverso generazioni di restauratori da più di mezzo secolo. Si può arrivare a stigmatizzare questo approccio quale azione di ripristino che non si praticherebbe mai sulle opere d’arte antiche e tradizionali. Eppure mi pare importante interpretare queste prassi di intervento che a più riprese e in diversi contesti sono state attivate nel restauro del contemporaneo, con una serie di distinzioni e delimitazioni, interpretandole come una fase di adeguamento ad una nuova percezione del rapporto dell’arte contemporanea con il mondo. È ormai opinione corrente che la preservazione delle tracce manuali dell’artista nell’opera sia un aspetto da cui non si possa prescindere nel restauro, rispettando quella stesura sensibile che reca memoria della sua espressività. In questi casi, come ad esempio per le campiture monocrome, l’unico possibile intervento è rigorosamente conservativo, attivando puliture ed eventuali reintegrazioni delle lacune, ma non procedendo mai con una ridipintura completa, come era invece stato ipotizzato anni fa dai professionisti che per primi avevano affrontato questo problema, con il risultato di annullamento e perdita del messaggio artistico. Voglio porre però l’accento sulla prassi che sembra più contrastare con il criterio tradizionale della conservazione imboccando nuove strade inedite che non sappiamo ancora dove porteranno. Proprio gli artisti hanno avviato questa nuova prassi, operando in sinergia con i restauratori durante la loro vita, lasciando un percorso tracciato per il futuro. Assimilare alla vita biologica l’arte, per capire la quale è opportuno riferirsi a tendenze e direzioni specifiche, tipiche dei diversi processi, è una prassi che gli artisti hanno impostato come una via d’uscita indispensabile.  La possibilità di sostituzione dei materiali seriali, impermanenti, non elaborati manualmente dall’artista, permette la rinascita dell’oggetto innescando un nuovo rapporto tra tempo e durata. Il progetto di restauro non si basa solo sulla necessità di mantenere il significato che è incarnato nella materia da conservare, potenzialmente inespresso se manca la sua forma espressiva compiuta. Tante esperienze sul campo dimostrano che non si può ottemperare a questo scopo soltanto conservando la materia, quando non permetta più di trasmettere il proprio messaggio. Dove quindi le forme espressive, attraverso modifiche e lacune sono carenti, la scelta non può essere quella di una acritica conservazione dello stato di fatto. La possibilità di sostituzione di elementi seriali ammalorati, sulla scorta di un approccio di conoscenza precisa e ben documentata, può risultare una soluzione appropriata ben definita dall’artista Michelangelo Pistoletto che in una intervista del 1986, afferma: “per quanto riguarda le mie opere rappresentano proprio il cambiamento delle cose, cioè uno slittare. È come la candela che si consuma ma che si sostituisce. Cè una modificazione che è molto vicina alla natura; è la possibilità di sostituzione continua che ha la natura stessa. C’è proprio in questi lavori la volontà del rinnovamento e del cambiamento; è come l’immagine dello specchio che ha una sua vita che sempre si rinnova. C’è nel mio lavoro una evidente partecipazione del processo vitale e direi che l’arte povera stessa segue questa logica”. 

Antonio Rava

Antonio Rava è Fondatore di Società Rava E C S.r.l. di Torino, Vice Presidente della sede italiana dell’International Institute for Conservation, Docente presso il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

 

L’opera d’arte contemporanea è quella che viene creata e che vive nello stesso tempo di chi la osserva. La contemporaneità appartiene quindi a tutte le epoche. È sempre esistita. Dal compimento di un’opera d’arte, o poco dopo, termina la sua contemporaneità e inizia il suo degrado e la sua storicizzazione. L’osservatore di un’opera a lui contemporanea ha spesso difficoltà ad accettarne i segni del passaggio del tempo; così come non si amano le rughe sul proprio corpo, sono recepite quale inevitabile e naturale invecchiamento  quelle sul volto della bisnonna, ormai storicizzata. È questo il motivo che rende difficile l’applicazione della teoria brandiana nel restauro delle opere contemporanee. Si ridipingono pertanto i monocromi, si sostituiscono i pezzi usurati, non c’è rispetto per l’insorgere di una patina. Esistono due quesiti fondamentali che necessitano di approfondimento, che sono frequentemente all’origine delle accese dispute in questo ambito: a chi spetta il potere decisionale sull’opera e quanto pesa la relazione con il suo valore commerciale? Non ci sono dubbi: il potere decisionale  è di chi possiede l’opera. Può purtroppo farne quello che vuole, fino ad arrivare alla sua distruzione, come avvenne nel 1934 quando Nelson Rockefeller fece distruggere il murales di Diego Rivera nel Rockefeller Center perché carico di riferimenti contrari al regime capitalista. È quindi il proprietario che decide se restaurare un’opera che l’artista ha volutamente scelto come creazione effimera o deperibile, nata per non durare. Ed è sempre lui, il proprietario, che sceglie se contrastare la volontà dell’artista che talvolta crea opere con una specifica volontà di farle vivere, integrandole con la natura,  permettendo che con l’invecchiamento esse possano variare di colore o di forma, per poi scomparire. I restauratori sono i medici dell’arte e, in quanto tali, non possono rifiutarsi di salvare una vita a meno che non ci sia una precisa volontà scritta dell’artista, come un testamento biologico. È moralmente corretto, quando si deve eseguire un intervento conservativo, contattare l’artista quando possibile, coinvolgerlo, informarlo di un eventuale restauro e ottenere informazioni tecniche, stilistiche e filosofiche riguardanti il suo pensiero, al fine di procedere nel miglior modo possibile al restauro. Poiché è il restauratore che dovrà mettere le mani sull’opera finita. Quando l’artista interviene personalmente con un restauro, rischia di rielaborare l’opera, cambiandone la testimonianza di un preciso periodo storico, e talvolta, non essendo un restauratore, non è altrettanto abile nel riparare danni. Infine, non è possibile non tenere in considerazione il valore economico dell’opera d’arte contemporanea, cosa assolutamente non trascurabile viste le altissime cifre a cui esse vengono oggi vendute e che giustifica talvolta “l’accanimento terapeutico” perseguito. Le opere destinate ad una fruizione fugace sono sempre esistite – per eventi, esposizioni, processioni – ma come Cesare Brandi stesso sottolinea, ci deve essere innanzitutto il riconoscimento dell’opera d’arte in quanto tale, una definizione che distingueva la decorazione dal capolavoro, e che forse oggi ci aiuta a distinguere la “provocazione” dall’opera d’arte.  Con la storicizzazione dell’opera, possono considerarsi ancora valide le regole definite nella sua Teoria del Restauro, fondamentali linee guida per il restauratore, ma come  diceva Giovanni Urbani, non si può sperare di prolungare ad oltranza la vita di un’opera d’arte. C’è un limite di fronte al quale  ci si deve arrendere. L’odierna arte contemporanea presenta spesso, forse più di quella del passato, una fase di “criticità” di fronte alla quale siamo costretti ad arrenderci.

Eugénie Knight

Eugénie Knight è restauratore-conservatore, libero professionista con sede a Roma.

© 2018 BOX ART & CO.

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