Superfici dell’oltre | Francesca Dondoglio e la poetica della soglia a Villa Cimena di Torino

di Enrico Turchi |

Si è appena conclusa l’esposizione di sei tavole di Francesca Dondoglio in occasione del restauro dei quattro teleri ottocenteschi decoranti la sala da pranzo di Villa Cimena, capolavoro neoclassico disegnato dall’architetto Carlo Sada sulle alture alle prime porte di Torino. Più che coprirne schiettamente lo spazio lasciato vuoto, le opere di Dondoglio aspirano a sfondare e ampliare la veduta prospettica delle pareti, tramite le consuete aperture generate dalla stratificazione pittorica del colore sulla superficie piana, un tuffo nel profondo e una mano colta nell’invito ad affacciarsi febbrilmente oltre la soglia, come in una dimensione altra così tipica della fiaba. L’iniziativa promossa dal progetto KEART per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico, in collaborazione con la Galleria Umberto Benappi e il sostegno di Reale Mutua Assicurazioni, vede la partecipazione di Giovanni Burali d’Arezzo nel contributo critico dal titolo Rimozione e splendore. Dondoglio a Villa Cimena.

Una volta preso coscienza degli spazi all’interno della prossima sede allestitiva, Dondoglio nota i colori forti e lo stacco causato dalla rimozione dei teleri, una visione che segna tracce più arcaiche e flebili tra la chiarezza del generale ordine e sfarzo diffusi nell’ambiente circostante. Il suo richiamo immediato è alle pareti della celebre Villa dei Misteri a Pompei, dove secondo gli storici ha luogo una raffigurazione dei riti misterici e iniziatici legati al culto di Dioniso e della sposa Arianna. La soglia proposta da Dondoglio è in effetti assimilabile a questo rito di passaggio, un evento che faccia emergere le potenzialità più profonde nascoste nel quotidiano, attesa, apparizione, il motivo soprannaturale che spezza il solito equilibrio e dà adito allo svolgersi successivo della vicenda. Una concezione questa del protrarsi dell’esistenza ordinaria, che premia attimi inconsueti e rivelatori, gli spazi in cui la prassi si apre al possibile, e l’elemento noto e naturale comincia a nutrirsi anche di soprannaturale, così forse più propriamente equiparabile al sacro. Proprio come nella spiritualità espressa da Simone Weil, tra l’incomprensione dell’ingiustizia arrecata dal dolore e il bene sacro e impersonale in atti di verità e bellezza, ma che partiva da una favola narrata solo da bambina, dove la scelta cade tra povertà e l’oppio della ricchezza, l’attraversare l’una o l’altra porta, il passaggio di una soglia: Maria d’oro e Maria di catrame.

Dondoglio vede così in queste tavole una finestra da cui scorgere ciò che finora era rimasto invisibile, un aprirsi all’inesplorato, finché un gesto qualsiasi non sveli «quell’oltre sempre vietato, sempre accennato dai sogni»¹, così profondo che la sola fede forse non basta a riconoscerne i simboli. Perché sino alla fine non sappiamo mai l’esito di una fiaba, così come non è dato aspettarsi la fine di un sogno, tanto da rendere paradossale lo sforzo, la pazienza e il valore stesso del viaggio. Eppure, tutto si mostra ugualmente al momento opportuno, quando il tempo è maturo, e quando alcuni segni precisi ci mostrano almeno un valido motivo ad avanzare. Come avvertiamo una vibrazione dalle opere di Dondoglio, gli oggetti nei racconti fremono di qualità magnetiche, di inaspettate corrispondenze, in attesa di essere raccolti dal legittimo portatore. Un ordito di simboli, che pur nell’assenza di figure e precisi riferimenti visivi, opera in Dondoglio come nelle alterne mete del sogno, un’assidua ricerca dell’inesprimibile.

Lo studio dell’artista iniziato nel 2019 intorno alla dualità del rosso e del blu, si esprime come lo scontro tra due antipodi, forze oppositive che tendono a incontrarsi tra una via di mezzo, quella cui si accede tramite l’impressione che suscita l’opera. Un circolo di vibrazioni scambievoli che segue la stretta logica del ritmo compositivo, come l’anello che sempre chiude un racconto. I due colori si mescolano così in una quiete solo apparente, vissuta invece dall’artista come un intenso dramma, il luogo dove il simbolo cerca di incarnarsi. Tavole realizzate con acrilici e pastelli proprio stendendosi a terra, e con l’uso delle mani e dei gomiti dopo una prima stesura a pennello. Tensioni cromatiche dal risultato affine alle vetrate gotiche del misticismo medievale, dove i riflessi di luce dettano l’impressione ulteriore delle forme, o alle dinamiche dell’antico paravento giapponese, il cui supporto fisico e sottile spinge parimenti ad essere varcato, superato e forato dalla semplice visione.

Una percezione sottile dell’alterità, con cui la scrittrice Cristina Campo chiude il saggio In medio coeli sul periodico «Paragone» di giugno 1962: «Ma al bambino che ascolta una fiaba, all’uomo che termina una poesia, al dormiente che, sul limite del risveglio, ha varcato il cancello proibito, l’eterno ha pur concesso una misura di s黲.

 

¹Cfr. C. CAMPO, Gli imperdonabili, Adephi, Milano, 1987, p. 23. ²Ivi, p. 27.

 

Dall’alto: Exhibition view, Courtesy l’artista e Galleria Umberto Benappi. Photo Jessica Quadrelli. Francesca Dondoglio in studio, 2024. Courtesy l’artista. Photo Jessica Quadrelli. Francesca Dondoglio, 2025, acrilico e pastello su carta montata su tavola, 112 x 85 cm, n° 13-25. Courtesy l’artista e Umberto Benappi.

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