UNA STRAORDINARIA EREDITÀ | Karole Vail

Non è un fatto scontato che ci si innamori dellʼarte, sia che si tratti di un dipinto, che di un brano musi- cale, di un romanzo, o di un artista, quindi mi sento fortunata che lʼarte sia sempre stata parte integrante della mia vita, sia a livello personale che professionale. Questo è in parte grazie alla mia educazione e alle circostanze, poiché ho avuto la fortuna di vivere in parti del mondo in cui la cultura è un premio, la storia è sempre presente e gli artisti abbondano. Sono cresciuta a Parigi, lì era consuetudine per me visitare molti musei e mi piaceva vedere mostre. Penso che lʼassoluta grandiosità delle istituzioni mi abbia sempre attratto e musei come il Louvre erano un posto meraviglioso in cui perder- si e sognare guardando la Gioconda, che allʼepoca era semplicemente incorniciata e meravigliosamente solitaria. Ricordo quando attraversavo la grande sala con i monumentali dipinti di Rubens, le cui voluttuose figure femminili trovavo quasi repellenti. Amavo guardare in estasi le sculture di Michelangelo che si trovavano nel Pavillon de Flore e mi chiedevo come fosse riuscito a realizzarle. Naturalmente sono stata attratta dagli impressionisti e dai dipinti del tardo XIX secolo al Jeu de Paume, con una predilezione – prima che venisse trasferito al Musée dʼOrsay – per I piallatori di Parquet del 1875 di Gustave Caillebotte, uomini senza camicia che sembravano così belli e stranamente romantici. Il Musée Marmottan era uno dei miei favoriti con le sue gloriose tele di Monet dai colori brillanti; e non vedevo lʼora di visitare Giverny e i suoi giardini incantati. Adoravo il Grand Palais per le sue esposizioni di così enorme successo, una novità a quei tempi; al Museo d’arte moderna della città di Parigi ricordo il brivido di visitare lʼeccezionale collezione di dipinti di antichi maestri del barone Thyssen- Bornemisza, in particolare Ritratto di cavaliere di Vittore Carpaccio, del 1510, ne assaporavo la meticolosa resa del paesaggio e pensavo, allora, che il cavaliere fosse troppo giovane e innocente per impegnarsi in battaglia. Altri grandi ricordi artistici sono indubbiamente legati al tempo trascorso a Venezia nella casa di mia nonna paterna, Peggy Guggenheim. Qui ho incontrato quelle che a me sembra- vano terrificanti visioni di strane creature del mondo nei tetri quadri di Max Ernst e Paul Delvaux. Non riuscivo a capire il misterioso Impero della luce di Magritte, ma le sue dimensioni monumentali sembra- vano invitare a penetrarlo letteralmente e a sperimentare notte e giorno proprio come Magritte lo avesse così meravigliosa- mente creato.

Sono sempre stata attratta dai toni grigi e dai colori dei primi dipinti cubisti di Georges Braque e Pablo Picasso e rimasi affascinata dal modo in cui gli artisti scomponevano lʼoggetto in una moltitudine di forme sul piano della tela; adoravo il dipinto di finestre luminose di Robert Delaunay, un invito a godere del colore puro. Gli spruzzi e le gocce grondanti di Jackson Pollock avevano un fascino speciale, li ho trovati straordinariamente rivoluzionari e liberatori, ciò mi ha mostrato che tutto era possibile nellʼarte. Queste esperienze alla fine scatenarono un maggiore interesse e desiderio nel per- seguire una carriera nel mondo dell’arte. Ho trascorso alcuni anni a Firenze lavorando al Centro Di, una casa editrice e centro di documentazione, e dilettandomi anche in altre attività. Eppure lo devo a New York se ho raggiunto un profondo e ricco legame professionale con l’arte e gli artisti. Ho iniziato davvero a trovare la mia strada quando ho avviato la mia carriera di curatrice al Solomon R. Guggenheim Museum. Uno degli aspetti più eccitanti di quel lavoro è stato confrontarmi con l’edificio di Frank Lloyd Wright in tutta la sua gloria architettonica e scoprire la storia dell’istituzione grazie al mio lavoro su Hilla Rebay, fondatrice e consigliera di Solomon Guggenheim, lo zio di Peggy Guggenheim, che stava creando il suo museo di arte moderna con un focus sulla pittura non oggettiva. Imparare a conoscere Rebay, e a riconoscerla come artista a pieno titolo, è diventata una sorta di missione e ha occupato la maggior parte del mio tempo al Guggenheim. È stato emozionante rendermi conto che i pilastri del Guggenheim erano davvero centrati attorno a due donne straordinarie, Peggy Guggenheim e Hilla Rebay, la cui lungimirante visione costituiva l’istituzione che conosciamo oggi, anche se le loro idee sull’arte erano lontane nonostante provassero entrambe un grande amore e una grande ammirazione per gli artisti. Il momento clou della mia carriera curatoriale è stata la retrospettiva dell’artista di origini ungheresi Laszló Moholy-Nagy al Guggenheim, che si è poi spostata all’Art Institute di Chicago e al Los Angeles County Museum of Art. Moholy-Nagy era uno dei preferiti di Solomon Guggenheim e Hilla Rebay e mi dispiace, un po’ scherzosamente, che Peggy Guggenheim non ab-

bia mai acquistato un Moholy per la sua collezione di opere d’arte moderna. Se dovessi criticarla per questa lacuna nella sua collezione potrei dire che il non aver incluso un’opera di Moholy-Nagy è stato forse un errore di giudizio da parte sua, perché enorme è la mia ammirazione per questo artista, così visionario e pioneristico, con i tanti media con cui ha lavorato. Ora mi trovo a Venezia al timone della superba e singolare collezione di mia nonna, in quello che potrebbe essere un sogno, e ho la responsabilità di essere guardiana della sua eredità. È un suo grande merito aver lasciato in eredità la sua col- lezione e il palazzo alla Fondazione Guggenheim, assicurando così – grazie alla sua visione, allo spirito e all’impegno senza paura nell’arte del suo tempo – che la sua collezione rimanesse nel suo insieme e fosse a disposizione dei visitatori provenienti da tutto il mondo. È mio dovere assicurarmi che sia goduta e rispettata dalle gene- razioni a venire, poiché l’arte è sempre un essere vivente da scoprire e riscoprire più e più volte. Sono anche fortunata ad essere sposata con un artista che mi dà intuizioni e forza per perseguire questo percorso nel miglior modo possibile. L’arte è sicuramente parte integrante della mia vita in tutti i modi possibili e per questo non potrei essere più felice e soddisfatta.

Karole Vail è Direttrice della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia.

Dall’alto: Karole Vail in una foto di Matteo de Fina. © Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Una delle sale del Museo, © Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Foto Matteo de Fina.

(pubblicato nel n. 30, aprile-giugno 2019 di SMALL ZINE)

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