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LO SPETTACOLO DELLE MACERIE

Stefano Serretta                                                                 

– Gregorio Raspa

Gregorio Raspa/ La storia contemporanea e la geopolitica internazionale sono due tra i temi che, maggiormente, sembrano ispirare il tuo lavoro. Come e quando è nata lʼidea di dedicarti allʼanalisi di simili contenuti?

Stefano Serretta/ La storia moderna e contemporanea è stata il centro dei miei studi. Negli anni questa e altre passioni (la narrativa, i graffiti, le discipline orientali e altro…) sono andate a fondersi in maniera per me molto naturale, diventando il centro della mia ricerca artistica.

GR/ Il modo in cui, per mezzo delle tue opere, affronti i temi in questione offre lo spunto per una necessaria riflessione sulle dinamiche del “potere” e suoi strumenti di esercizio, di conservazione e di comunicazione. In questʼottica, tutto il lavoro da te svolto sui simboli jihādisti, e quello portato avanti sui fenomeni macroeconomici e monetari, sembra rispondere alle logiche di unʼunica, comune, indagine conoscitiva…

SS/ Tutto il mio lavoro recente si sviluppa intorno al tentativo di indagare il caos (economico, politico e religioso) creato dalla ridefinizione dei rapporti di forza tra le potenze di oggi e quelle di ieri, e i danni collaterali che questo scontro ha provocato – e continua a provocare – sotto forma di grandi tragedie e grandi interrogativi. È lo Spettacolo delle Macerie, apertosi idealmente a inizio millennio con la distruzione delle Torri Gemelle…

GR/ Seguendo l’ideale linea che all’interno della tua ricerca congiunge le argomentazioni storiche a quelle economiche, si osservano una serie di opere in cui il denaro assume – non solo concettualmente, ma anche materialmente – un ruolo strategico. Mi riferisco a lavori come Friends o Trillions. Me ne parli?

SS/ Friends è un ciclo di opere cominciato nel 2013, si tratta di mandala realizzati piegando e unendo a mano, una ad una, banconote di vari tagli e nazionalità. Sono composizioni geometriche effimere in cui il valore dʼuso è subordinato al valore estetico. In Trillions mi sono concentrato su un simbolo, le “balance stones” raffigurate sul Dollaro dello Zimbabwe – tipiche formazioni rocciose in bilico lʼuna sullʼaltra – come punto di partenza per riflettere sul fenomeno dellʼiperinflazione e sulle fluttuazioni inaspettate nel mercato monetario. Il Dollaro dello Zimbabwe è stato infatti ritirato dalla circolazione recentemente dopo essere diventato la valuta corrente più inflazionata al mondo. Si è arrivati a stampare banconote da 100 Trillioni di Dollari, dal valore pressoché nullo.

GR/ Ho trovato molto interessante l’idea di lavorare con le banconote. La moneta infatti – specie quella cartacea – con il suo apparato iconografico definisce e cristallizza precise identità storiche e sociali. Un po’ come i francobolli e le bandiere, elementi – non a caso – già impiegati nella pratica costruttiva del tuo linguaggio. Più nello specifico, quali sono i presupposti concettuali e teorici legati al loro utilizzo?

SS/ Banconote, francobolli e bandiere sono apparati simbolici del potere già ampiamente utilizzati da moltissimi artisti, i quali li hanno di volta in volta decostruiti e/o risignificati. Per quanto mi riguarda, a parte un sincero feticismo per il denaro, li ho sempre indagati da un punto di vista delle immagini che rappresentano, andando ad alterare i loro elementi costitutivi – come nella serie Black Standard (Echoes), dove bandiera nera e black screen impattano l’uno nell’altro – o, ancora, mettendo in relazione l’immagine e la sua cancellazione – penso agli interventi su francobollo dell’opera Bam o nel trittico Threesome.

GR/ Uno dei tuoi lavori più noti è senz’altro Aeternitas, un intervento site-specific realizzato nel 2014 nell’ex fabbrica Fibronit di Bari. Utilizzando il modus operandi sperimentato in quella occasione, ti sei reso protagonista di altri interventi nello spazio pubblico elaborando la memoria e l’identità di luoghi dotati di una precisa caratura simbolica. Mi racconti come nascono simili opere?

SS/ Dall’osservazione dei territori in cui mi trovo ad operare cerco sempre un dettaglio che funga da crocevia per intersecare vero e verosimile. A Bari lo scheletro della ex Fibronit rappresenta una ferita aperta nel quartiere di Japigia ma anche una rovina industriale di una contraddittoria bellezza. Da una riflessione sul concetto di durata, nelle sue duplici connotazioni, è nata lʼidea di un lavoro che si è sviluppato in due tempi: prima nello spazio della fabbrica e poi in quello della galleria.

GR/ Non solo in Aeternitas, ma in molti altri lavori, esibisci un attento ed elaborato utilizzo del linguaggio. Dal titolo ai contenuti, le tue opere sembrano sfruttare la ricchezza della semantica ed esaltare il valore estetico della parola. Sulla scrittura poggia una porzione importante della tua poetica…

SS/ Il linguaggio è il “pollice opponibile” del pensiero. Le possibilità e i cortocircuiti che le parole possono generare, la loro dimensione visiva e la pratica della scrittura sono una costante del mio lavoro. La poesia, la narrativa, il rap sono per me stimoli fortissimi e costanti di ispirazione, così come la loro trasposizione in immagini, graffiti, slogan e loghi.

GR/ C’è una domanda che forse avrei dovuto porti all’inizio della nostra conversazione ma che, volutamente, ho riservato per il finale: in che misura il tuo gesto artistico è anche gesto politico?

SS/ Solo nella misura in cui si può definire come gesto politico un pensiero libero.

Dall’alto: BLACK STANDARD (ECHOES), 2016. Acrilico su cotone, 100×150 cm. FRIENDS, 2013-17. Banconote in corso di varie nazionalità, dimensioni varie. Per tutte courtesy dellʼartista.

© 2018 BOX ART & CO.

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