di Loredana Barillaro |
Nel tuo libro dal titolo Ars Attack, si consuma parte di una controversia in corso già da molto tempo, e cioè quella sulla validità o meno di una fetta dell’arte contemporanea. Emerge ciò che probabilmente molti non hanno il coraggio di dire, e cioè che siamo di fronte ad un grande bluff?
Angelo Crespi/ Credo di aver dato una risposta definitiva alla questione, non certo per merito mio, semplicemente elencando le tesi e traendone le giuste deduzioni come molti prima di me hanno fatto, addirittura con più determinazione. Nessuno che spacci una merda per arte è in grado di rispondere ai dubbi di chi continua a vedere semplice merda seppur d’artista: quando lo fa, è costretto a utilizzare magniloquenti circonlocuzioni che manifestano più l’intento di mistificare che quello di chiarire.
Di fatto, la teoria – come scrivo nel libro – ha sopravanzato l’arte e non esiste arte se non ha alle spalle una buona teoria. Certo il mio ragionamento di buon senso si scontra con la resistenza fattuale del contemporaneo: cioè l’arte oggi è questa, e se è questa, è questa. I laudatores della coprofilia non hanno bisogno di ulteriori prove, e dietro questa apparente verità si nascondono ben pasciuti.
Dunque una buona dose di marketing e di pubbliche relazioni sembrano essere fondamentali per il successo di un artista, questo vuol dire forse che, a tirare le somme, tutto, o quasi, potrebbe sgretolarsi, e che è già parecchio consumato e digerito?
AC/ Al contrario dei laudatores, sono convinto che non esista nell’arte alcun progresso e dunque non credo che un artista contemporaneo sia meglio di quello che lo ha preceduto né che quello che verrà dopo potrà e dovrà spingersi un po’ oltre e aderire ancor più al suo presente per essere migliore del predecessore.
Questa idea del progresso è una sonora stupidata, un’ideologia, per giustificare il macabro del contemporaneo e l’esigenza di sempre nuove orrende trovate.
Al contrario credo che l’arte proceda per stili che si avvicendano e tornano: essendo lo stile contemporaneo – che dura da settant’anni – improntato al brutto, potrebbe essere sostituito presto con altro; al di là del marketing o delle pubbliche relazioni che tengono in piedi, per ora, così com’è, il sistema, obbedendo a stretti motivi economici e speculativi.
Mi viene da pensare alla recente questione del presunto plagio compiuto da Maurizio Cattelan sulla copertina del New York Times Magazine del mese di febbraio scorso, in cui la vicinanza ad un’opera del 2004 di Francesco De Molfetta pare inequivocabile. Può, anche questo aspetto, costituire un tassello della tua analisi?
AC/ Ovviamente sì. In generale, la questione del plagio, della scopiazzatura, è molto divertente e paradossale.
Un tempo i temi erano sempre gli stessi, diversi i modi con cui affrontarli: per cui non aveva senso parlare di plagio o copiatura quando un pittore trattava la medesima scena, che so una crocifissione, già affrontata da un suo predecessore. Anzi, il talento si misurava proprio nella ripetizione del contenuto affrontato però con stili e linguaggio diversi. Poiché l’opera d’arte contemporanea invece si basa sull’idea – così almeno ci hanno insegnato – e non sul modo di realizzarla, all’artista non è neppure chiesto di intervenire materialmente, né sul risultato che può essere perfino brutto; sembrerebbe quindi che la primogenitura dell’idea sia cosa fondamentale.
E invece no, scopriamo che anche l’idea può essere scopiazzata e il risultato non cambia. Allora ne deduco che se l’opera d’arte contemporanea può prescindere dall’idea e dalla realizzazione, quello che resta è la griffe, il marchio impresso dal cosiddetto artista che può firmare a piacere qualsiasi idea anche di altri, espropriandola.
Cos’è sgunz, è forse un nuovo imprescindibile strumento verbale per riportare tutto nell’ordine delle cose?
AC/ Lo sgunz è neologismo che mi vanto di aver coniato per rappresentare l’opera d’arte contemporanea. Tra onomatopea, derivazione fumettistica, e fonetica, il termine evoca bene lo stupore e la sorpresa schifata davanti a un manufatto del contemporaneo. Inoltre ha un effetto catartico perché la definizione dell’opera contemporanea in termini di sgunz ne depotenzia il connaturato carattere ideologico, mettendone alla berlina le pretese modaiole e vippistiche.
Per finire, ha ancora significato l’arte, serve ancora a qualcosa? Quanto sono cambiati i canoni estetici, i parametri con cui rapportarsi ad essa?
AC/ L’arte serve certo. È una delle espressioni massime dell’umanità. L’arte vera, quella che ancora aveva un legame con la bellezza, serviva a restituirci l’assoluto in un frammento. Serviva a farci sperare che qualcosa di noi si prolungasse oltre la nostra morte. Era una sorta di religione laica in cui trovare il senso dell’esistere. Quella contemporanea, avendo spezzato ogni legame con l’estetica, afferisce più al campo del logos (del misurabile) che a quello del mitos, è una sorta di scienza per non scienziati in cui le teorie non possono essere in alcun modo dimostrate, una sorta di ragionamento il cui fine non è la verità delle cose bensì la loro dissacrazione.
Un ritratto di Angelo Crespi
(intervista pubblicata nel n. 14 Aprile-Giugno 2014 di SMALL ZINE)
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