
Partirei da un assunto per raccontare la mia storia professionale, ovvero che se il mondo dell’arte sembra essere dettato da logiche lontane da tutti noi, i musei invece sono i luoghi dove può accadere che il quotidiano incontri il distante da te e la conoscenza può produrre dubbi. È stato questo che ho sentito, prima ancora di sceglierlo; avrei voluto vivere e respirare tutto questo. Come sempre è iniziato tutto da una scintilla e la mia è scoccata in Portogallo in un edificio progettato da un italiano e destinato ad accogliere tutte le forme d’arte, da quella visiva a quella performativa e, ancora più interessante, si prefiggeva di farlo per tutti. Ma forse è importante anche sottolineare che tutto questo avveniva in un Paese malconcio che aveva enormi problemi economico sociali, ma un grandissimo fermento culturale e una vivida attrazione per la contemporaneità. Ecco fatto. L’arte e la cultura riempivano le corti di quel palazzo, i suoi giardini erano invasi da teatranti e musicisti da tutta Europa e artisti contemporanei arrivati per la prima volta si facevano conoscere attraverso le sale espositive gremite di giovani e di famiglie. Quel luogo era il Centro Cultural de Belem. Da allora non ho mai smesso di vivere e lavorare in quest’ambito.
Dopo un periodo in Canada accolta da François Colbert all’università HEC, il grande bivio in Italia all’epoca – quando non esistevano ancora facoltà dedicate alla gestione delle istituzioni culturali – era tra il dedicarsi agli studi accademici o, per lavorare nelle istituzioni, partecipare a concorsi pubblici. Parliamo dell’epoca in cui aveva aperto il centro culturale più interessante in Italia e non a Milano, dove vivevo, o a Roma, ma a Rovereto in provincia di Trento. Ne ero innamorata a distanza e poi è diventato una passione vissuta da vicino. È stata un’esperienza professionale e formativa insieme determinante e illuminante, una sorta di laboratorio di cultura, arte, economia e sviluppo forse unico in Italia. Ma ripeto, era più di vent’anni fa. Il mondo nel frattempo è cambiato, oggi esistono facoltà specializzate e diverse realtà indipendenti che aprono le loro porte a tante professioniste e professionisti.
Ho compiuto il mio percorso dentro istituzioni, anche molto diverse tra loro, pubbliche e private, al centro di una metropoli, o ai confini di una regione turistica: dopo il Mart in Trentino, mi sono spostata all’Assessorato alla Cultura di Milano negli anni di Expo 2015 e ai musei di arte moderna e contemporanea di Milano e ora a Venezia a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, sedi espositive della Pinault Collection. Avere avuto la fortuna di poter osservare l’evoluzione del ruolo delle istituzioni culturali nei diversi territori, adattare e adattarsi alla geografia culturale e costruire insieme al pubblico un linguaggio comune, anche uno spazio di contraddizione ma sempre aperto e pronto alla trasformazione, è stata e continua a essere la “scuola” più importante.
Lo sviluppo, la comunicazione, la partecipazione, la condivisione in epoca recente sono stati concetti spesso associati alla “democratizzazione” dell’arte. Anni di dibattito spazzati via da due anni di Covid. Si perché nulla è stato più forte degli anni del confinamento forzato per far emergere quanto sia scivoloso il confine tra divulgare e condividere con più persone possibile i contenuti culturali che producono i musei e i centri d’arte e la loro dispersione o banalizzazione. Ma è dall’epoca preistorica del digitale nei musei, epoca in cui facevamo i primi esperimenti al Mart aprendo profili su social media ancora sconosciuti e producendo contenuti dedicati ai canali digitali o in cui aprivamo gli archivi del ’900 (gioiello visionario del progetto Mart) alla scoperta dei dettagli della vita degli artisti o, ancora, si stringevano produzioni con grandi musei internazionali, che ho maturato la consapevolezza della cura, della conoscenza e anche dell’ascolto di tutti coloro che vivono e contribuiscono alla vita di un museo. Il museo è un organismo vivente vero e proprio che, anche quando non sembra intercettare le urgenze dell’attualità, offre a ognuno di noi la possibilità di avere uno sguardo altro.
Clementina Rizzi è Direttrice del polo comunicazione, mediazione e sviluppo di Palazzo Grassi Punta della Dogana di Venezia.
Un ritratto di Clementina Rizzi. © Matteo De Fina.
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